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Il Pianeta Mangiato

 – di Mauro Balboni (*)

Come faremo a continuare a produrre cibo in aree che si stanno inaridendo (dalla California al bacino del Mediterraneo)? Come faremo a continuare a produrre cibo mentre stiamo degradando ed erodendo il terreno fertile (secondo la FAO, al ritmo di degradazione degli ultimi 40 anni, l’avremo esaurito entro i prossimi 60)? Quanto possiamo andare avanti con produzioni agroalimentari la cui impronta climatica e idrica è accertatamente insostenibile? Da dove viene il modello agroalimentare oggi dominante? È insostenibile per definizione? È riformabile? Quanto tempo abbiamo per cambiare le cose?

Sono queste alcune delle domande cruciali che pongo in Pianeta Mangiato. Libro di domande scomode. Che spalanca gli occhi ai lettori affrontando la “guerra dell’agricoltura contro la Terra” in modo olistico, strettamente basato su fatti e fonti ufficiali e senza richiamarsi a soluzioni preconfezionate.

La Grande Collisione

Poche persone riflettono sulla scala spaventosa dell’impronta della produzione del cibo sul pianeta che ci ospita: ha aumentato di circa 1500 volte la popolazione planetaria di noi Homo sapiens (e non si ferma certamente qui, visto che nel 2050 saremo 10 miliardi); ha trasformato il 35% delle terre emerse in un ecosistema semplificato e per gran parte artificiale, quello dei campi coltivati e dei pascoli (l’“agroecosistema”); consuma tre quarti di tutta l’acqua usata dal genere umano (oltre 3,000 km3 all’anno); contribuisce al cambiamento climatico con il 30% di tutte le emissioni umane di gas-serra.

Tutto questo, nell’ambito di quella che vari autori chiamano l’accelerazione della collisione delle attività umane contro i sistemi planetari e i loro limiti, accelerazione iniziata verso il 1950 e che ha già probabilmente traghettato la Terra in una nuova era, come proposto nel 2016 dal Congresso Internazionale di Geologia: l’Antropocene, nel quale l’impatto umano ha già sostanzialmente alterato sistemi planetari come il ciclo del carbonio e quindi il clima, o il flusso geochimico di elementi come azoto e fosforo, o la diversità biologica e genetica; o il funzionamento degli ecosistemi e dei loro servizi, proprio quelli che, paradossalmente, hanno permesso la nascita e lo sviluppo dell’agricoltura stessa e l’affermazione della civilizzazione umana sedentaria. Come si sostiene nel Pianeta Mangiato, oggi quella civilizzazione è arrivata ad un incrocio pericoloso.

La Guerra  delle  narrative del cibo

Cominciammo a praticare agricoltura e allevamento a partire da 10.000 anni fa. Fu un successo che cambiò la storia del mondo. Il pianeta del Neolitico, le sue immense risorse inesplorate, la nostra bassissima densità e la pur rudimentale tecnologia dell’epoca ci convinsero che modificare gli ecosistemi terrestri per aumentare la produttività di certe piante agrarie e di certe razze animali (da noi selezionate geneticamente allo scopo) sarebbe stata un’attività destinata a continuare per sempre, senza limitazioni e danni collaterali.

Ma molti aspetti ci ammoniscono oggi in senso contrario: alcuni noti e recenti, come l’inquinamento chimico, nel più generale problema dell’immissione di “entità artificiali” nella biosfera; altri molto meno, come il collasso di intere società agrarie già in situazioni storiche preindustriali, dovuto alla fondamentale insostenibilità del loro modello agroalimentare anche in presenza di tecnologia ancora rudimentale.

Tuttavia, proprio al mondo preindustriale guardano le narrative del cibo che si oppongono a quella industriale dominante: mentre quest’ultima si basa sul dogma contemporaneo dell’ottimismo del mercato (eventualmente riedito sotto la voce di uno “sviluppo sostenibile” spesso né definito né quantificato, anche se  disinvoltamente usato come argomento di marketing), le altre tendono ad idealizzare le condizioni di vita in un “buon tempo andato” di felicità campestre che ha però ben pochi riscontri nella storia: all’epoca in cui i mulini andavano ad acqua e non si coltivavano ancora i “perversi” grani moderni, gli europei si inurbavano in massa o emigravano a milioni, anche per fame.

Questo ha consentito l’affermazione di remunerative “diete della salvezza”, nicchie di mercato ad alto margine. E di accattivanti narrazioni di “ritorni alla terra” che rimangono però fatti marginali, a volte perfino elitari e comunque globalmente irrilevanti, mentre le economie emergenti del mondo stanno conoscendo un esodo rurale senza precedenti e si avviano ad avere città di 100 milioni di abitanti entro fine secolo; si lascia credere che stia diventando vegetariano un mondo in cui in realtà la Cina ha, dal 1980, triplicato il consumo pro-capite di carne, e il Brasile lo ha raddoppiato; e in cui la deforestazione in Mato Grosso avviene per piantare soia destinata al mercato delle proteine animali europeo e cinese. Ci si appassiona alla narrazione del cibo slow, dimenticando che dal 2000 al 2020 in Cina i pasti consumati nella ristorazione fast saranno sestuplicati. Non si vuole capire che il destino del pianeta è nelle mani dei miliardi di nuovi consumatori dell’Asia.     

Il cibo dell’Antropocene

Oggi la grande emergenza che il genere umano deve affrontare ha un nome preciso: il cambiamento climatico. Purtroppo, il sistema agroalimentare è stato finora sostanzialmente ignorato nel grande dibattito sul clima, con due conseguenze: quasi nessuno conosce il terribile impatto climatico della produzione del cibo; e ancora meno persone (in una società sempre più urbanizzata e ignara di dove e come venga prodotto quello che mangia) capiscono quanto le produzioni agrarie dipendano a tutti gli effetti dal clima. Eppure, i segnali di allarme non mancano.

L’Europa centro-settentrionale è stata abituata dal marketing a mangiare (12 mesi all’anno) ortofrutta spagnola, così come il consumatore Americano mangia quella californiana: ma in entrambe quelle regioni la frequenza e l’intensità delle fasi siccitose sta aumentando, e i modelli climatici prevedono un peggioramento. Grandi regioni agricole del mondo stanno “rimanendo a secco”: la geografia agroalimentare globale è destinata inesorabilmente a cambiare.

Ci servono altre colture, che richiedono un uso meno intensivo dell’acqua rispetto a quelle affermatesi di recente come mais e soia. Ci servono altri modelli di produzione e consumo. Ci serve una ridefinizione del concetto di campo coltivato: tutto quello che abbiamo fatto negli ultimi decenni, e cioè monoculture industriali di appena 4-5 specie vegetali – semplificando così pericolosamente la produzione totale globale di calorie edibili – potrebbe già essere un modello obsoleto.

Il futuro richiederà un’immaginazione adattativa ed evolutiva senza precedenti. Non possiamo limitarci alla nostalgia per i campi felici di un buon tempo passato che forse, come tale, non è nemmeno mai esistito. È tempo di sfidare le stesse fondamenta della produzione del cibo come la facciamo da 10.000 anni: dobbiamo per forza dissodare e seminare dei campi, o allevare animali sui pascoli, per produrre cibo?

E se spostassimo l’agricoltura in verticale, usando le stesse tecnologie usate nelle stazioni spaziali orbitanti? E se la spostassimo in città radicalmente reinterpretate e ricostruite per prodursi il cibo da sole? E se producessimo proteine edibili dagli insetti, cosa che oltre due miliardi di esseri umani fanno dalla notte dei tempi? E se ricavassimo cibo direttamente dagli ecosistemi naturali, senza bisogno di arare campi o allevare animali, cosa che un miliardo di esseri umani fa ancora oggi ogni giorno? E se sintetizzassimo in laboratorio le proteine e le calorie che ci servono?

Nel mondo dell’Antropocene, cosa significherà “cibo” e come e dove lo produrremo? Che significato avranno espressioni come “cibo tradizionale” per i consumatori delle megalopoli dell’Asia del 2100? E se la salvezza del pianeta consistesse nel dare finalmente l’addio al Neolitico e all’agricoltura, la sua ormai datata invenzione? Nel pieno della Grande Collisione, all’incrocio pericoloso del mondo descritto nel Pianeta Mangiato, possiamo in realtà fare ancora qualcosa di straordinario: smettere di guardare indietro verso un passato idealizzato in forme elitarie, e usare l’ingegno umano per adattarci ed evolvere, assieme – non più contro – al nostro Pianeta.              

 

(*) Autore – Il libro è edito da Edizioni Dissensi

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