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La grande riabilitazione da Covid 19

 in risposta alle domande di Piero Bassetti – di Carlo Alberto Rinolfi (*)

 Siamo tutti confinati nell’inaudito campo mondiale della riabilitazione forzata COVID 19. La condizione è analoga a quella di chi ha subito un grave trauma e si trova in un centro ospedaliero di riabilitazione. In queste strutture, chi riesce ad uscire dal girone delle rianimazioni si ritrova in uno stato prolungato di fragilità e impotenza. 

Come si affronta questo genere di situazioni? Fare finta di nulla e illudersi che tutto torni come prima o meglio di prima, abbattersi nello sconforto o aggredire col proprio stress il mondo esterno sono soluzioni controproducenti che aggravano il processo riabilitativo. L’alternativa è di trasformarsi in esploratori dei propri limiti accettando la nuova condizione traendone tutto il meglio che è possibile.

Con questo spirito e nell’ottica di coloro che hanno vissuto direttamente l’esperienza del confinamento prolungato, Mondohonline affronta ciascuno dei cinque formidabili quesiti che un uomo politico saggio come Piero Bassetti ha posto alle coscienze del suo tempo.

1)  Quale “decisore può comporre il conflitto tra l’opinione popolare e la competenza della tecnica?

Per chi ha vissuto in un centro di riabilitazione la risposta è molto chiara: la competenza tecnica delle strutture mediche è il contesto decisionale di riferimento nel quale sopravvivono e si riabilitano le persone. La comunità dei ricoverati ha una sua opinione che può influenzare ma non governare il tecno-sistema sanitario. 

Anche nella società colpita dalla pandemia nessun ” decisore politico interprete dell’opinione pubblica” è autorizzato ad agire da solo. Data l’arretratezza dei sistemi di assistenza online e di una cultura istituzionale di prevenzione, quando scoppia l’emergenza pandemica si può solo confidare nella capacità del politico di turno di aver predisposto per tempo le strutture adeguate, di saper attivare agli scienziati migliori e di svolgere umilmente e onestamente la sua funzione di mediazione istituzionale.

Durante il periodo di espansione della pandemia come in quello della disabilità acuta, il conflitto risultante dalle pressioni dei sistemi economici e politici viene composto all’interno di quello della tecnica medica specifica che si presume debba permettere la più rapida sopravvivenza e riabilitazione a livello locale.

In questa fase la volontà politica, prima focalizzata sulla cattura dell’opinione e dei sentimenti degli elettori a supporto delle istanze di crescita dell’economia, viene semplicemente inglobata da un sapere tecnico sovranazionale e ridotta a un ruolo tecnico-burocratico. Le pressioni del sistema economico che erano determinanti per i ritmi e gli stili della vita precedenti al trauma pandemico o disabilitante si arrestano di colpo, ma sono destinate a riesplodere in fase di reinserimento sociale in una forma che implica una pesante caduta di reddito se non uno stato di vera povertà. Molti lavori precedenti sono destinati ad essere abbandonati e l’impegno produttivo giornaliero riorganizzato anche in smart working o ridotto in misura consistente.

Inizialmente il processo del “che fare” si sposta dunque all’interno della comunità tecnico-scientifica ed è funzione della qualità del personale medico locale, delle strutture sanitarie disponibili e del livello di assistenza sociale in essere.

Per le fasi successive si presume l’entrata in gioco delle competenze degli esperti dell’economia che dovranno non tanto far ripartire il sistema precedente ma attivare i modi di un suo nuovo sviluppo in condizioni di sicurezza ambientale e personale.

Sul piano della società globale l’evento pandemico sembra quindi indicare l’avvento di una nuova forma di tecno-politica più adatta alla “civiltà bio-tecnologica” capace di sospendere e trasformare libertà individuali assicurando la sopravvivenza in salute e di condizionare l’economia di mercato prevalente.

2)  Quale sistema di relazioni e di saperi si può immaginare dopo l’accelerazione pandemica?

La condizione di pandemia, come il trauma di una grave disabilità, aumenta di colpo la necessità di interventi immediati e coordinati di più servizi orientati alla persona. Il tipo di intervento riabilitativo ottimale è svolto da più discipline che operano tenendo conto dell’insieme del “sistema umano” e non solo di un particolare aspetto della patologia che lo coinvolge. 

Per i pazienti il pericolo maggiore consiste nell’essere considerati alla stregua di una “cosa” , un semplice numero o un insieme di organi tra i tanti. Analogamente per il cittadino confinato o in quarantena il pericolo maggiore è legato alla spersonalizzazione di contatti con le strutture di assistenza e le burocrazie, un disagio  che spesso si somma alle inefficienze di sistema e alla automatizzazione errata dei servizi.  

Come in ogni stato di emergenza, un “sapere burocratizzato ” fondato su rigide specializzazioni e ripartizioni degli ambiti di intervento risulta troppo rigido e quindi inadeguato. La estrema specializzazione focalizza sì il particolare ma difficilmente coglie la complessità e dinamicità dei processi disabilità o di emergenza e pertanto rallenta la sopravvivenza e la riabilitazione dell’umano e delle comunità nei territori.

In relazione alla salute il confronto è quindi tra “saperi focalizzati sui processi sistemici dell’organismo umano” e “saperi centrati su aspetti particolari degli organi del corpo umano”, il compito non è semplice per comunità scientifiche vincolate a protocolli consolidati e soggette alle pressioni degli operatori economici del settore.

Un problema analogo si presenta anche per i sistemi di gestione amministrativa del territorio che, soprattutto in uno stato di pandemia, devono garantire la qualità e velocità delle interazioni personalizzate  per la semplice fornitura di supporti protettivi e nutrizionali o per la più complessa assistenza medica e di monitoraggio a distanza. 

Il salto è di mentalità, riguarda le istituzioni e le burocrazie ma anche tutti i cittadini di un pianeta ormai quasi completamente digitalizzato. L’info-mondo, sotto la spinta dell’isolamento motorio, è destinato ad accelerare ulteriormente lo sviluppo di una umanità  per la quale l’interazione “informatica virtuale” si sovrappone ancora più di prima a quella “biologica reale “ del tradizionale faccia a faccia. Emergeranno nuove opportunità ma anche  nuovi rischi e patologie individuali e sociali con conseguenti comportamenti compensativi. Si vedranno presto emergere nuove competenze scientifiche ma anche giuridiche legate in particolare alla ridefinizione della privacy e degli spazi di libertà individuali.

Lo stress da mancata mobilità generato dal pericolo pandemico è destinato dunque a spianare la strada all’internet che fa dialogare  direttamente le cose, ai servizi online, alla realtà aumentata e all’estensione di sistemi digitalizzati nelle sfere del lavoro, apprendimento, svago, salute e al controllo individuale dei pericoli ambientali, e  a favorire l’adozione di sistemi di controllo e monitoraggio istituzionale H24.  

3)  Come uscire dall’impotenza per l’assenza di un potere legittimato a governare l’innovazione?

In un centro di riabilitazione talvolta si alimenta un sottosistema emozionale di pazienti che ingaggia un confronto e talvolta anche uno scontro con le procedure dell’istituzione per ottenere gli spazi di espressione necessari al processo di guarigione. Il sistema tecnico più avveduto si avvale cioè della creatività presente nelle relazioni umane che si sviluppano anche nei gruppi di “pazienti ribelli” quando si eliminano le distinzioni formali e si instaurano relazioni personalizzate e empatiche.

Un analogo processo avviene anche nella società in stato di pandemia quando si lasciano liberi i cittadini di comunicare in modo virtuale.  Si creano gruppi, fonti informative parallele a quelle ufficiali e seguaci di personaggi o teorie anche infondate. 

Quella informale, pur non essendo una modalità in grado di dominare la potenza tecnologica organizzata prevalente, è però una formidabile espressione dell’Ambiente Umano che, unito a quello Naturale, può influenzare anche pesantemente il comportamento del sistema medico scientifico. L’innovazione che ristruttura un sistema riabilitativo sanitario nazionale in stato di pandemia ha la stessa natura di quella che coinvolge il singolo paziente in riabilitazione. In “isolamento” si sente il bisogno di essere  costantemente seguiti anche con un flusso continuo di informazioni pratiche.

Nella società i comunicati quotidiani, se pertinenti, aiutano ad affrontare lo stato di emergenza e le reazioni che si attivano nella rete sono espressione di aggregazioni informali di cittadini che possono agevolare o suggerire specifici provvedimenti e decisioni. Le reti informali web sono sempre più decisive per le sorti del pianeta al punto che possono anche ostacolare decisioni istituzionali e per questo vengono usate anche  per far assumere decisioni a parlamenti, influenzare gli elettorati, divulgare segreti diplomatici, organizzare movimenti alternativi, alimentare stati di paura divisiva o viceversa di apertura collaborativa. 

Anche per questo nuovo ambiente digitale, in una condizione di necessità pandemica, il consenso legittima direttamente l’autorità tecno-scientifica e l’impotenza delle strutture politiche tradizionali è il segno del loro inevitabile ridursi da sistema orientato alle istanze della crescita economica a sistema funzionale allo sviluppo delle soluzioni tecno-sanitarie prevalenti perché ritenute più efficaci . 

La legittimazione del potere decisionale segue dunque una via diretta che unisce i cittadini ai responsabili della tecno-gestione saltando tutte le strutture di rappresentanza intermedie nella Società anche in ottemperanza dei dettami costituzionali relativi agli stati di emergenza . Per i Centri di Riabilitazione la costituzione è sostituita dal consenso informato, 

Il governo dell’innovazione, laddove esiste, sembra farsi sempre più “tecnico” e il paradosso è che le pandemie virali come i disastri climatici sono tutti fenomeni già previsti dalla ricerca e tutti hanno la loro origine nel rapporto instaurato con l’ambiente proprio da una tecnica di tipo particolare e molto sensibile sia  alle istanze di una economia orientata prevalentemente allo sviluppo del capitale privato che alla volontà di potenza delle singole nazioni.

 4)  Come governarci al tempo delle connessioni reticolari?

Le “piattaforme di autogoverno locali ma globali e assistite “sembrerebbero essere la logica conseguenza per gestire una condizione di rischio globale che varia da luogo a luogo in base al tipo di trauma ambientale sia esso biochimico-virale, alimentare, climatico o nucleare e della cultura delle popolazioni interessate.

Le connessioni reticolari forniscono il telaio delle piattaforme globali, ma le forme e i contenuti della comunicazione più efficaci variano a seconda delle situazioni specifiche così come l’interazione varia da paziente a paziente. In ogni caso l’importante è la tutela e la ricerca della relazione empatica e umanizzata che nessun robot o algoritmo può garantire. Per un centro di riabilitazione l’importante è che la rete della comunità medica sappia gestire i processi di comunicazione diretta e le interazioni empatiche personali. Anche per la società le vie della comunicazione diretta e dell’empatia umanizzante appaiono inevitabili, sia che siano attivate per manipolare le consapevolezze sia per espanderne i confini. 

Le condizioni di confinamento pandemico come quelle di riabilitazione sono fonti di stress così come lo sono le difficoltà economiche.  L’instaurarsi di relazioni empatiche tra le costellazioni di sapere e di relazioni inter individuali che formano il contesto riabilitativo sociale  permettono di sopportare  lo stress provocato dal cambio dei punti di vista e di superare più facilmente i limiti propri e del sistema entrato in crisi .

Una sorta di autogoverno personalizzato consapevole e tutelato online sembra la forma migliore per affrontare il pericolo virale e convivere con gli effetti collaterali di un trauma pandemico. Un simile salto è però ancora ostacolato da profonde ancore culturali  che fondano una  identità personale e di comunità su principi di separazione con l’Altro e il Resto del Mondo .  

Anche nell’enorme e variegato mondo delle disabilità si registra una impressionante proliferazione di associazioni e piccole comunità per ora ancora prevalentemente legate alle singole patologie e personalità. Le  piattaforme interattive unificanti fanno fatica ad affermarsi. Spesso non si supera la forma rivendicativa o di tutela del proprio “gruppo di differenti” e si rinuncia ad intervenire sulle necessità di tutta la comunità.

5)  Il crepuscolo degli stati-nazione è accelerato dal virus, quale identità comunitaria?

Forse per noi che viviamo in questo mondo è difficile indicare “Quale” sarà l’identità comunitaria del futuro, probabilmente ci dobbiamo limitare a indicare “Come” se ne può costruire una nuova anche grazie alla pandemia che impone la necessità di garantire una comune sopravvivenza personale e ambientale.

L’esigenza di ridurre la virulenza del contagio con limitazione di movimenti e contatti anche intergenerazionali comporta però il rischio di una rincorsa alla chiusura dei confini a difesa della propria identità territoriale che, se si trasforma in opposizioni interpersonali nazionalistiche, può rischiare di far regredire una umanità il cui destino è invece sempre più uno unico e comune. 

Anche nel caso del trauma di una disabilità improvvisa, il rischio è la chiusura delle relazioni per lo stress da perdita dell’identità precedente. Accade sempre anche nelle comunità colpite da terremoti o da calamità ambientali. In tutti questi casi la soluzione passa per la costruzione della “Resilienza sociale ” che, per chi è in riabilitazione, segue un percorso terapeutico validato a livello internazionale che prevede passi come quelli indicati nella ‘Road to resilience’ dell’American Psychological Association: 

  1. Effettuare più collegamenti possibili  
  2. Evitare di vedere le crisi come problemi insormontabili
  3. Accettare che il cambiamento è parte della vita
  4. Muovere costantemente verso obiettivi realistici  
  5. Prendere azioni decisive
  6. Cercare nuove opportunità di scoperta di sé 
  7. Coltivare una visione positiva di se stessi 
  8. Mantenere le cose in prospettiva
  9. Mantenere una prospettiva di speranza
  10. Avere cura solidale di sé
  11. Cambiare le proprie mappe del mondo e del sé.

A livello di società la terapia più efficace di uscita dalla pandemia è analoga e sembra preludere a una solidarietà estesa oltre i propri confini e al passaggio ad una economia più attenta ai beni comuni. Sul piano dell’identità culturale forse sono l’accettazione del valore segreto delle differenze e delle proprie impotenze a giocare un ruolo decisivo. 

Come fare? Per chi è portatore di disabilità si tratta di ribaltare una identità legata allo stereotipo negativo che separa il nuovo “differente” dal vecchio “normodotato” per accedere al valore di una resilienza quotidiana e innovativa originata proprio dalla condizione di non autonomia della volontà personale.

Per la società è possibile un percorso analogo finalizzato a trarre da questa pandemia una spinta intelligente verso la cura del piccolo pianeta azzurro in cui tutti siamo differenti e tutti siamo uno.

(*) Presidente Mondohonline

 

 

23 commenti per La grande riabilitazione da Covid 19

  • Credo di condividere molto spirito e analisi di questo contributo di CA Rinolfi e ripromettendomi di tornare sul tema anche dopo aver letto Bassetti, farei un primo commento a caldo sull’ultima parte.
    Non vuole essere un appunto critico ma una sollecitazione ad ulteriori approfondimenti di prospettiva e parte dal messaggio finale richiamato da CAR della Psychological Association.
    In sintesi: molto centrato sul SE’ e sul nostro miglioramento anche solidale sociale, ma se dentro questo stesso involucro economico potrebbe volere dire “legittimarlo e confermarlo” (acriticamente) mentre credo che lo si debba CAMBIARE in senso partecipativo verso un EMERGENTE SOCIETA’ ED ECONOMIA CIVICA:
    nell’Organizzazione del Lavoro , nella distribuzione equa del rischio patrimoniale, nei consumi responsabili, nel rapporto non dominante con la natura, nell’accoppiamento equitativo e aperto con la tecnica, nell’accesso diffuso alla CONOSCENZA, in una formazione dinamica continua, ecc.
    Altrimenti il messaggio della Psycological Association rischia di essere il PROZAC (sociale) prossimo venturo che passa attraverso il CONTROLLO della TECNICA
    venduta come accesso ad un NUOVE DEMO_TECNOCRAZIE (O TECNO_DEMOCRATURE) autocratiche che controllano la SCIENZA simulandone l’interesse collettivo di cui abbiamo già segnali: GAFA (google-piattaforme, amazon-logistica, Facebook-entertainment and banking, apple-hardware/software).
    Il Covid-19 potrebbe diventare la prima palestra planetaria di questo disegno. Parliamone!

  • Alberto Rinolfi

    Sfuggire alla paura e riconquistare fiducia nel proprio sè inteso come consapevolezza di chi si è come individui o comunità locali, è il primo passo da compiere quando si è colpiti da un trauma personale o ambientale . Il passo successivo è la ridefinizione del proprio sè in un universo che si presenta radicalmente mutato.Cambiare le le mappe dl sè e del mondo crea stress e si può fare meglio in una comunità solidale di umani che si riconoscono in una stessa condizione.
    L. Pilotti da buon economista identifica giustamente la direttrice “esterna” del cambiamento dell’assetto sociale sottolineando l’importanza decisiva gli aspetti economici. Di fatto suggerisce di ampliare lo spettro delle domande poste da Pietro Bassetti che paiono più focalizzate sulle difficoltà della politica e sui cambiamenti culturali / istituzionali .L’invito è accettato con l’avvertenza che nell’osservare l’evidente prevalere della tecnica legata alla sanità in stato di pandemia e nel prevedere che la politica dovrà ancora avvalersi della tecnica economica per trovare la via d’uscita , ho solo voluto indicare il tramonto della politica sulla base delle ideologie e la sua trasformazione in senso funzionale agli altri sistemi sociali e di potere prevalenti dell’economia e della tecnologia . Il recinto del campo di isolamento dal quale intendiamo uscire sembra anche a me costituito dai reticolati in gran parte desueti ma ancora spinosi dell’attuale economia e dalle vecchie e nuove trappole dell’attuale tecnologia. Mentre scaviamo il nostro tunnel sotterraneo dobbiamo imparare una nuova lingua e predisporre nuovi abiti e nuove carte di identità per tutti noi.

  • Quello dal quale dobbiamo difenderci scavando a fondo le nostre nicchie ecologiche, connettendole, lo segnalava gia’ Martin Heidegger nel 1966 ª Der Spiegel poco prima di morire e molto prima di Severino che ci ha lasciato da poco.Entrambi ragionando sulla natura dominante della Tecnica e dalla quale guardarci. Perché ” tutto funziona. Questo è l’inquietante, che funziona. E il funzionare spinge sempre oltre versioni ulteriore funzionare, e la tecnica strappa e sradica l’Uomo sempre più dalla Terra…visto le fotografie della Terra scattate dalla Luna. Non c’è bisogno di bomba atomica: lo sradicamento dell’Uomo è gia’ fatto. Tutto cio’ che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la Terra quella sulla quale l’Uomo oggi vive”. Quindi gli artefatti della tecnica ci allontanano sempre piu’ dalla Natura. Ma la tecnica non è neutra, e’ possibile qualche soluzione alternativa che l’ Uomo se vuole sopravvivere come specie deve sapere esplorare.

    • Alberto Rinolfi

      Si pare anche a me che sia così. Sembra proprio che la storia di questo virus stia scrivendo un capitolo di un’opera postuma del filosofo Emanuele Severino secondo il quale già per Eraclito bisognava spegnere la fiamma prevaricatrice della tecnica piuttosto che spegnere il fuoco illuminante della conoscenza.

  • Concetta Maglia

    La mia generazione non sapeva, se non per sentito dire, cosa significa doversi inventare o re-inventare il futuro. Perché semplicemente la mia generazione è stata quella del futuro, inventato con sofferenza, ma soprattutto con l’entusiasmo e la fantasia visionaria e audace, dai nostri nonni e padri. Loro si, che avevano vissuto sulla loro pelle gli sconvolgimenti della seconda, e molti anche della prima, guerra mondiale.
    Certo, probabilmente non è corretto accostare gli accadimenti di una guerra con quelli della attuale pandemia. Ma chi può affermare che gli effetti sulla vita delle persone non siano altrettanto se non più gravi?
    Le domande che si pongono quindi, sono inevitabilmente legate alla enorme incertezza del futuro prossimo e a lungo termine della umanità intera. Non ho la presunzione di conoscere le risposte, saranno la ricerca scientifica e la Medicina a dare soluzioni nel trovare le giuste terapie e soprattutto il vaccino efficace per il Covid 19. Saranno la politica illuminata e di servizio, l’economia basata sul rispetto della natura e del diritto al lavoro e non sul profitto che rigenera e nutre se stesso e pochi eletti. Sarà la tecnologia delle comunicazioni in rete alla portata di tutti, per la diffusione del sapere e la condivisione delle notizie e delle possibili soluzioni, senza sfruttamento a fini commerciali o diffusione di fake news. Sarà il ritorno alla terra, nei suoi ritmi e stagioni, per coltivazioni biologiche e allevamenti animali molto meno intensivi ed inquinanti.
    Sarà, sarà, quante cose sarà necessario e comunque obbligatorio cambiare. Però niente potrà davvero evolvere e migliorare se non partiamo dal singolo individuo.
    Sarà auspicabile, allora, guardare il mondo e gli altri con occhi nuovi. Sarà capire che chiudersi nel proprio piccolo spazio, specialmente se privilegiato non per merito ma per fortuna o peggio furbizia a danno del nostro vicino, nel momento del bisogno o del pericolo non paga.
    Sarà sentirsi parte di un insieme che va ben oltre le nostre case , città, regioni, nazioni, continenti.
    Sarà rinunciare a quanto di superfluo e alienante finora ha riempito i vuoti interiori e morali di ciascuno di noi.
    Sarà, lo so, forse una utopia. Ma è inseguendo le utopie e provando a fare le cose che la maggior parte crede impossibili, che fin dall’età della pietra hanno condotto l’uomo verso il progresso.
    Non è utopia cercare di andare avanti con coraggio e speranza, provando a ri- costruire un mondo migliore, tutti insieme.

    • Alberto Rinolfi

      E se invece fosse necessaria proprio una UTOPIA ? Uno “Stato di cose necessario ” che Concetta Maglia descrive bene ma che non ha ancora “luogo” e che nulla ha a che fare con la semplice fantasia. Definiamola dunque bene e nei minimi particolari dando per scontato che la realizzazione di ogni Utopia ha sempre bisogno di passare per una Eresia. Una radicale messa in discussione degli schemi che reggono il mondo attuale così come lo pensiamo nella nostra mente .

  • alcune considerazioni:

    Mentre noi tutti stiamo sperimentando cosa significhi un improvvisa diminuzione delle nostre possibilità di azione e spostamento, la società non è (forse ancora) paragonabile a un luogo di cura, ovvero a un sistema chiuso governato dal sapere tecnico.

    Il sapere tecnico si caratterizza per un insieme di regole e procedure standardizzate, dedotte selezionando arbitrariamente i risultati di alcune scoperte scientifiche o dell’esperienza pratica rielaborata e trasformata secondo regole matematiche ritenute, da chi struttura una nuova disciplina, tra le più adattate alle esigenze di una particolare prassi. Dopo avere selezionato e semplificato le conoscenze scientifiche ed empiriche che ritiene utili, e cancellato o destituito di legittimità i saperi che non possono rientrare nella nuova prassi che intende creare, chi fonda un sapere tecnico stabilisce una serie di protocolli non derogabili.

    mentre il sapere scientifico, essendo aperto e in continuo divenire, non possiede un carattere normativo stabile, ma solo temporaneo, il sapere tecnico nasce da una volontà di potenza che ne impone il carattere normativo che, a sua volta, richiede una componente intrinseca di violenza e costrizione. Il sapere tecnico procede escludendo gli altri saperi dal suo campo d’azione. E questo campo d’azione tende ad ampliarsi all’infinito.

    Per la sopravvivenza della democrazia, ovvero di un sistema di precetti modificabile e in evoluzione secondo le esigenze del momento, sarebbe desiderabile che il decisore politico fondasse le proprie scelte sui risultati della ricerca scientifica, per quanto gli appaiano scivolosi e provvisori, piuttosto che sulla normatività rassicurante del sapere tecnico, con il suo carattere normativo e pericoloso per la libertà.

  • Alberto Rinolfi

    Grazie Luca Bergo dello sforzo di chiarimento che condivido , eppure il confine tra tecnica e scienza a me pare ancora molto sottile. Se il sapere scientifico moderno è per sua natura incerto-instabile-temporaneo e, in ultima istanza, basato sulla probabilità , che sicurezze ci può offrire la sua guida? Potrebbe portarci alla distruzione nel pieno rispetto delle sue indiscutibili regole probabilistiche.
    Quella che la scienza contemporanea ritene una teoria “vera” non deve essere verificata/validata da un esperimento tecnico,in attesa di un altro esperimento che la confuti? Se lo scopo della ricerca scientifica contemporanea è quello di superare continuamente ogni limite con l’esperimento allora i laboratori che fanno ricerche genomiche o nucleari non svolgono una attività tecnoscientifica ?
    Siamo di fronte a un problema non facile da risolvere e neppure lo sono gli impatti sulle forme più o meno democratiche della convivenza sociale .
    Luca Bergo osserva giustamente anche che il centro di riabilitazione è un sistema chiuso e non riproduce tutta l’apertura e la complessità della società .
    E’ certamente vero che molta dell’efficacia della metafora della riabilitazione sia legata allo stato di isolamento pandemico, è lui che porta in primo piano la necessità di anteporre la salute alle altre istanze ma per Mondohonline indica qualcosa di più, indica una condizione permanente nella quale questo mondo è già immerso.
    La società del rischio globale è infatti destinata a riservarci altre situazioni nelle quali si tratta di scegliere tra la sopravvivenza fisica e quella economica. Avviene sempre con gli tsunami, i tornadi e i terremoti ma anche all’Ilva di Taranto, nella Terra dei Fuochi , a Chernobyl e a Fukushima , avverrà ancora ovunque per il cambiamento climatico.
    Purtroppo si deve poi constatare che la riabilitazione a non è affatto un fenomeno ristretto in tutto il mondo .
    Nella sola Italia sono 4,8 i milioni di persone con disabilità che salgono a circa 12 se si considerano le disabilità minori. E’ un grande mercato in sviluppo rappresentato da più di 5.000 strutture residenziali di assistenza a disabilità e anziani e da migliaia di associazioni. Siamo di fronte cioè a un gruppo sociale consistente presente in tutto il mondo che anticipa le necessità di una società sempre più anziana e sempre più soggetta ai rischi ambientali.

  • Leonella Gori

    Spesso si sente paragonare l’attuale situazione alla realtà della guerra più tradizionalmente intesa, quella con i fucili, le bombe e tutto il corollario di morte che i conflitti portano con sé. Il paragone, se evidente e possibile da molti punti di vista, non tiene in considerazione, però, di un elemento semplice: di fronte alle guerre tradizionali è possibile fuggire, forse, con un po’ di fortuna, emigrare in altro luogo, provare a schivare gli ordigni. Ma da questa bomba non c’è fuga. Non è il proiettile che non senti arrivare perché è quello che ti ucciderà, è la calibro X che spara un colpo troppo letale, perché troppo invisibile. Non si può scappare in un luogo libero dal conflitto; si può cercare di combattere trincerandosi nell’isolamento fisico, ma per quanto? E’ davvero questa la filosofia che ci consentirà di vincere la battaglia? Forse, dicono gli esperti, unita alla ricerca che gli studiosi portano avanti tra mille incognite; ma non basta rinchiudersi. E’ importante che ciascuno conservi il senso della ricerca di un equilibrio, che, certamente, è innanzitutto una ricerca del sé. Gnozi – auton (e purtroppo non ho la tastiera greca, cioè conosci te stesso), ma con la finalità che da tale erudizione, che è più un autentico Riconoscimento del sé, a ben vedere, emerga una nuova umanità, un nuovo senso dell’essere, e dell’essere all’interno di una comunità, estesa ed aperta.
    Qualcosa che è talvolta piuttosto semplice per chi ha già dovuto riprogrammare tutta la propria vita a seguito di profondi stravolgimenti, soprattutto se questi hanno il carattere che noi tutti speriamo, forse utopicamente,questa emergenza non abbia per davvero: quello della permanenza strutturale.
    Grazie per l’articolo, invita a riflettere, usando il cervello. Oggi più che mai, l’arma più potente che abbiamo.

    • Alberto Rinolfi

      Leonella Gori ha ragione , sembra uno stato di guerra senza via di fuga. siamo noi che ci auto isoliamo per difenderci dal “Virus” che non è neppure un organismo vivente ma un veleno invisibile ai nostri occhi che si presenta in forma di particella inattiva con una informazione genetica capace di alterare le nostre cellule superando le difese del nostro sistema immunitario. Il paradosso è che nell’era dell’info-sfera digitale il mondo è bloccato da una minuscola informazione virale! Ma non basta. I corona-virus sono noti da tempo e si sa che,nella migliore delle ipotesi, sono collegati allo stress che imponiamo col nostro tipo si sviluppo economico all’ambiente e alle altre specie viventi. I laboratori di ricerca da tempo li conoscono e li modificano non solo per scopi umanitari o di business al punto che anche il pericolo di una pandemia come questa era già da tempo noto e preannunciato in sedi pubbliche e ufficiali. Dunque la grande guerra con l’invisibile ha a che fare , come suggerisce Leonella, innanzitutto con un nostro sè troppo animato da un rapporto pericoloso con la natura e ancora troppo poco legato a un necessario nuovo “senso dell’essere all’interno di una comunità estesa ed aperta”.

  • Gabriella Campioni

    Dibattito MOLTO interessante al quale vorrei aggiungere due commenti.
    Il primo riguarda il lessico “bellico”. Non mi stupisce, ci siamo abituati da qualche secolo e io stessa a volte ci ricasco. Qualunque sia il problema, la risposta è combatterlo, magari senza pensare che in tal modo potremmo innescare una reazione contraria e forse non uguale, bensì aumentata date la capacità di diffusione del virus, le correlazioni con tutti gli ambiti oltre a quello sanitario e implicazioni sociali e psicologiche tutt’altro che trascurabili. Qualcuno, non ricordo chi, suggerisce di sostituire la parola “guerra” con la parola “cura”. Siamo tutti in cura, ovvero in una via di cambiamento e possibilmente di guarigione.
    Il secondo commento riguarda la parola “utopia”. Non molti anni fa erano utopia il volo aereo e il telefonino in ogni tasca. Ogni grande innovatore anche sociale era ritenuto un utopista… Oggi sembra che di grandi utopisti (o visionari) non ce ne siano: e se fosse perché, nell’immensa sapienza che riconosco alla Vita con la “V” maiuscola, siamo chiamati tutti a creare tante piccole utopie da mettere poi insieme in una più grande? Esempi non ne mancano.

  • Alberto Rinolfi

    Gabriella Campioni fa bene a osservare che la metafora della guerra è ambivalente seppure declinata come “senza vie di fuga” e utilizzata per riconoscere la necessità di ridefinire il proprio Se’. Dobbiamo però constatare con Leonella che l’Occidente , e adesso tutto il mondo , è da sempre abituato a ragionare in termini di battaglia , opposizione , competizione . E’ ancora convinto che “la guerra sia la madre di tutte le cose” come diceva Eraclito e non viceversa che “le cose siano le madri dei tutte le guerre” come sostiene il nostro buon Severino.In questo caso l’assenza del nemico porta però alla necessità ricercare la soluzione in “riconoscimento del proprio Sè ed è a questo punto che la “Battaglia contro” si può trasformare in una “Cura per”.
    L’invito a definire meglio “l’Utopia Necessaria” e a farla diventare “virale” non a caso emerge dai commenti di tre donne e va raccolto proprio adesso che miliardi di connessioni web sono al calor rosso proprio grazie all’isolamento fisico forzato da Covid19.
    Il paradosso è che questa valanga di informazioni in rete che possono generare un nuovo mondo è scatenata da un virus , cioè da una piccolissima informazione appunto “virale” .

  • Gabriella Campioni

    Non so se davvero questo ragionare in termini di battaglia sia da sempre. Per l’archeologa lituana Marija Gimbutas, fino a circa 6000 anni fa esistevano città, tra cui Creta, che non avevano neppure le mura difensive di cinta, quindi vivevano in pace… e, guarda caso, in parità tra i generi. Più che generi “fisiologici”, maschile e femminile sono due modi di pensare collegati ai due emisferi cerebrali, grossissimo modo, e appartengono a tutti.
    Il modo “maschile” è collegato a razionalità, scienza, aggressività: invito a rileggere quella poesia sconvolgente che è “Uomo del mio tempo” di Quasimodo, soprattutto quando dice “con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio”. Il modo “femminile” è collegato a immaginazione, intuizione, inclusione, accoglienza.
    Non significa certo che tutte le donne pensino in un modo e tutti gli uomini in un altro, ci sono svariati esempi di “scambi”… e meno male, i tipi “puri” sono spesso patologici! Però trovo “normale” che siano donne a vedere e a portare avanti nuovi modi di pensare e di vivere, è una questione di “risonanze” che si fanno sentire in un periodo in cui si avverte che la mentalità finora imperante ha molte falle e si sta dimostrando obsoleta.
    Non si tratta nemmeno di dire che una mentalità sia migliore dell’altra: come tutto ciò che esiste, a mio avviso, ognuna ha i suoi lati in luce e i suoi lati in ombra, non ancora compresi. Per me si tratta semplicemente di dire: se una via non funziona più, proviamone un’altra.
    Nè si tratta, infine, di tornare alla preistoria o di distruggere le conquiste e le costruzioni di quest’era: sarebbe ancora una volta “maschile”. In fondo, credo, è semplicemente una questione di imparare a tesaurizzare tutto anche per le generazioni a venire, dote innata nelle matriarche di campagna di non così tanti anni fa…
    Nel Polesine si chiamavano “rezdore”; in Lombardia, credo, “regiure”: in ogni caso, “reggitrici”, amministratrici molto accorte del patrimonio piccolo o grande, materiale e umano/relazionale, della famiglia.

    • Alberto Rinolfi

      Si potrebbe aggiungere che nel femminile il rapporto con i processi della natura è più vissuto come condizione evidente e permanente ? E’ la condizione in cui viene catapultato chi subisce un trauma disabilitante: la natura attraverso il corpo dolorante e improvvisamente infragilito riappare con tutta la sua forza .Forse è questa consapevolezza ad essere meno presente nel modo di pensare “più maschile” del cosiddetto ” normodotato” che si è sviluppato nella nostra cultura? La balena bianca che trascina negli abissi il capitano Achab è la metafora di una forza “naturale ” dotata di un intento proprio e indomabile che si ribella e scatena alle ferite degli arpioni logici e lineari della tecnologia del'”tecno-umano” . Forse è il momento di rinnovare il linguaggio metaforico e non lineare che aiuta a far comunicare meglio le due “mentalità” citate da Gabriella . Ma come fare nell’era digitale? Quali narrazioni, metafore e linguaggi? Gli dei sono scomparsi e e baleniere condividono i musei con le ormai polverose navicelle spaziali , adesso il gioco si sposta sul bio umano , sul ragazzo che entra nel virtuale per acquisire “i poteri magici dell’immortalità del successo “. Che volto avrà oggi Moby Dik?

  • MARILENA ARANCIO

    Nel leggere l’articolo mi ha colpito la definizione “pazienti ribelli” che ho fatto subito mia. Ed è proprio perchè mi sento una di loro vorrei aggiungere alcune considerazioni. Allo stato attuale delle cose individuo tre punti immediatamente e funestamente importanti: perchè questo virus e l’imprevidenza globale nell’affrontarlo, la condizione traumatica di ogni essere umano colpito, la resistenza dei pazienti ribelli per arrivare alla riabilitazione.
    L’origine del Sars-Cov2 è fonte di grandi interrogativi, spesso si cerca di sfuggire alle proprie responsabilità immaginando un complotto di pochi su una popolazione ignara – vedi la generazione di questo virus in laboratorio e l’insufficienza del suo contenimento con danno globale- ma la realtà è molto più complessa. E’ pur vero (e non starò a citare il TG Leonardo del 2015 o le accuse alla Cina per un laboratorio di ricerca a Wuhan che avrebbe “partorito” il virus per poi lascialo svolazzare sul pianeta) che da uno dei tanti papers scientifici pubblicati sulle riviste del settore ( cito Nature Medicine , 9 novembre 2015 , “A SARS-like cluster of circulating bat coronaviruses shows potential for human emergence” , studio americano) si dimostra che – non solo in Cina – esistevano laboratori che dopo la brutta esperienza della SARS cercavano di capire se le eventuali mutazioni di quel coronavirus di origine animale potessero ingenerare qualcosa di ben peggiore per l’umanità , arrivando ad una conclusione purtroppo positiva. E’ anche vero (e provato da vari articoli di stampa internazionale ) che i Capi di Stato di molti (se non tutti) Paesi furono avvertiti di prepararsi a una possibile pandemia molto peggiore della precedente e non ne tennero conto. Tutte le nazioni del mondo se ne infischiarono e non fecero alcun preparativo per questa eventualità. E lo abbiamo constatato e lo stiamo tuttora constatando mano a mano che il Sars-Cov2 avanza conquistando nuovi territori.
    Gli scienziati ricercatori di allora provarono e provano tuttora che il virus ha avuto origine animale, trasmesso sempre da un pipistrello probabilmente ad un altro animale di cui l’uomo si nutre abitualmente e da lì all’uomo stesso. Il SARS-Cov2 appare avere una sequenza genomica tale da poter essere stato creato ed evoluto solo dalla natura.E la natura è sempre più forte dell’uomo, ricordiamocelo.
    Tutti ne siamo stati colpiti. Nella sua democraticità e fame assoluta il virus non ha fatto distinzioni di genere, di etnia, di latitudine o di condizioni climatiche, nè di civilizzazione o di wilderness. Predilige a quanto sembra l’inquinamento atmosferico per farsi trasportare più lontano dalle polveri sottili, e anche i grandi mercati alimentari in cui coabitano animali selvaggi insieme ad animali allevati negli allevamenti intensivi (che provocano molto di quell’inquinamento)
    Il trauma che ha colpito tutti, con il numero sempre più crescente di morti, il crollo di molti servizi sanitari uno dietro l’altro, l’impreparazione della maggior parte dei governi, l’inadeguatezza di molti dei governanti e l’ignoranza sul nuovo virus, uniti al rischio di crollo di interi sistemi economici nazionali e alla perdita di libertà individuale per non pagare con il prezzo della vita, hanno trasformato l’io in noi. Noi tutti che possiamo ancora leggere questo articolo e scrivere per esprimere fondamentalmente il nostro smarrimento e la ricerca di una reazione salvifica, noi che ci diciamo l’un l’altro che “dopo” tutto dovrà cambiare , noi che abbiamo bisogno di una riabilitazione fisica e psichica, noi che abbiamo bisogno di dare la colpa agli altri. No, la colpa è anche nostra. Noi abbiamo accettato la pervasività dello sfruttamento delle risorse naturali in modo massiccio, noi abbiamo accettato di avere una tecnologia diffusa che fosse al nostro servizio al prezzo del sacrificio del mondo naturale, noi abbiamo accettato che il pensiero unico del consumismo avvelenasse il nostro intelletto e il nostro senso di responsabilità verso gli altri esseri umani, verso il mondo animale, verso quel mondo vegetale che ci nutre e ci dà l’aria che serve ai nostri polmoni per vivere. E così è arrivato il virus a togliercela. Tutti noi abbiamo venduto l’anima a Faust e tutti noi ora dobbiamo rivedere gli assetti su cui poggiavamo il nostro vivere.
    E qui entrano in gioco i pazienti ribelli, quelli che di fronte all’impotenza di una vera riabilitazione non solo del singolo ma dell’intero pianeta devono farsi sentire, devono agire contro il pensiero unico che limita qualsiasi ritorno alla salute vera perchè ne fa merce di scambio economico. I pazienti ribelli, con sforzo perchè durante la convalescenza siamo tutti più deboli nel corpo e nello spirito, con sforzo ma con ferrea volontà devono portare alla luce la semplicità del rispetto verso sè stessi, verso gli altri e verso il pianeta in tutte le sue forme viventi e non, in tutti i modi possibili e immaginabili. Il Sars-Cov2 è stato solo un avvertimento. Il prossimo potrebbe essere l’atto finale per noi.

  • Alberto Rinolfi

    L’importanza dei “ribelli” è evidente anche per le imprese che , sotto le spinte dirompenti dei cambiamenti tecnologici, sono costrette alla flessibilità e all’innovazione permanente. Per adattarsi al cambiamento continuo dono costrette a strutturarsi in reti di nuclei autonomi e “ribelli” che ricalcano le forme tipiche dei “commandi” degli esploratori e dei marines catapultati in territori sconosciuti. Le linee di comando convenzionali cambiano in modo dinamico e si segue l’esploratore che ha più intuito o competenze appropriate al momento specifico , non c’è più un potere centrale di comando lineare , non più e procedure fisse da seguire. L'”Autorità” ufficiale depositaria del “Potere” è sostituita dalla”Autorevolezza” più efficace del momento che , per poter innovare, è per definizione “eretica” e “ribelle”. Come favorire le sinergie di sistema ordinato di questi processi e come fare in modo che il sistema non si sfasci? ? E’ un serio problema manageriale per le imprese e tecnico – politico per la società .
    Forse qui vi è parte della risposta al terzo quesito di Bassetti ” Come uscire dall’ impotenza per l’assenza di un potere legittimato a governare l’innovazione?”. I problema non attiene dunque solo alla sfera della politica e delle istituzioni burocratiche ma riguarda anche le imprese economiche , le comunità scientifiche e anche noi , singoli individui e personalità informative della rete globale .

  • Gabriella Campioni

    Rispondo alle domande di Alberto Rinolfi.
    Da circa 30 anni mi appassiono alla visione simbolica e mitologica della vita e una cosa per me è diventata lampante: la realtà è multidimensionale, come a dire fatta di varie frequenze tutte interconnesse, un po’ come le onde elettromagnetiche che ormai, tra radio, tv, telefoni, computer e quant’altro, ci attraversano da ogni parte senza che ne siamo davvero consapevoli. Giro una manopola e mi sintonizzo sulla stazione Pinco, la giro ancora e mi sintonizzo sulla stazione Pallino, ma sono tutte li, compresenti s SIMULTANEE.
    Analogamente, rispetto al nostro vissuto quotidiano ci sono frequenze più dense, materiali, e frequenze più “sottili”, meno percepibili con i sensi fisici. Ma anche queste sono tutte lì, compresenti e simultanee. Quando mi sintonizzo sulle frequenze “materia”,il linguaggio da usare è quello della logica, della razionalità, della scienza, della “tecno”. Per le altre mi serve un altro tipo di linguaggio, fatto di analogie, immagini, “percezioni”, intuizioni.
    Se però quelle frequenze sono compresenti e simultanee, allora significa che ciò che si muove (le “vibrazioni”)sulle prime deve necessariamente riflettersi sulle seconde e viceversa. La Fisica quantistica, per quanto io ne sia ignorante, non dice forse che tutto è energia?
    Insomma, è una questione di risonanze, così come, sul piano fisico, se pizzico una corda della chitarra A, entra in vibrazione la stessa corda della chitarra B a lei vicina. O come negli esperimenti della cimatica.
    Nel mondo dei simboli, le risonanze formano delle “catene”. Così, ad esempio, la catena del Principio Femminile comprende donna, Terra (anche sottoterra), Natura, acqua, luna, notte, coppa, pancia, accoglienza: è la dimensione del “dentro”… Quella del Maschile comprende sole, giorno, fuoco attivo, testa, aggressività, spada, penetrazione, possesso: è la dimensione del “fuori”…
    Il Graal, con la spada infissa nella roccia (Terra)o nel calice, rappresenta l’unione dei due Principi, che i Cavalieri di Artù cercavano con devozione. Essi affinavano sia le arti guerriere di Marte che quelle dell’amor cortese di Venere. Entrambe indispensabili per diventare esseri umani completi. Lo dice anche Carl Gustav Jung, con la sua “individuazione” consistente nelle nozze ierogamiche tra Animus e Anima. E “individuo” significa non diviso.
    Tutto ciò detto, non sorprende che la donna sia più in sintonia con la Natura, pur con tutti i distinguo già citati nel mio precedente commento.
    In millenni di storia, a parer mio, abbiamo compiuto un lunghissimo cammino, per così dire, di reciproco adattamento tra noi e la Natura. Chissà, forse, quando si vive un trauma a seguito del quale la “Natura irrompe dolorosamente nel corpo”, non c’è una risonanza tra noi e lei, bensì una dissonanza che, sempre a mio personalissimo parere, vuole portarci ad approfondire il nostro rapporto con la Natura, a cercare nuove forme di dialogo più difficoltose, certo, ma perché non più profonde, creative e alternative al mainstream? Se non vado errata, ad esempio, i non vedenti hanno altri sensi più sviluppati dei “normodotati”.
    E se ci fosse una chiamata analoga, ma ben più potente e impellente, per la dissonanza che abbiamo creato negli ultimi tre secoli a livello planetario? Se il virus fosse l’araldo di questa chiamata? Per recepirla dovremmo evitare di lasciarci sconvolgere troppo dal linguaggio dell’araldo per non perdere di vista le altre “frequenze risonanti” che stiamo già vedendo: i piani sociale, politico, economico, ambientale, psicologico… Il piano medico-sanitario sembra prevalere, ovvio, “normale” e auspicabilmente temporaneo, ma gli altri piani sono compresenti simultaneamente: se agiamo solo su uno, ne risentiranno anche gli altri. Non lasciamoci bendare gli occhi, cerchiamo di capire che cosa c’è sotto questa pandemia, impariamo a pensare in proprio unendo testa, cuore, pancia e pelle, ossia logica e intuizione, facciamo in modo che si amino follemente.
    Alberto si chiede quale sarà la prossima Moby Dick (per me è femmina)… In realtà dovremmo lasciare il ruolo del capitano Achab (“maschio” o forse “macho”)… Perché, fra altre, mi sembra di aver capito una cosa da questa avventura: se continuiamo a sentirci separati da lei e in guerra, la Natura è più forte di noi. Se invece ce la portiamo dentro, se entriamo in sintonia, insieme possiamo creare un mondo stupendo.
    Come sempre, sta a noi, a ognuno di noi. I governi non ci possono arrivare perché formati alla scuola separativa che ha creato la dissonanza, e perché questa emergenza, che sia casuale o voluta come qualcuno sostiene, non ha precedenti… E la mentalità razionale, se non ha modelli ai quali rifarsi, si sente perduta, sbatte le ali qua e là come una mosca impazzita senza trovare una via d’uscita. Occorre inventiva, occorre osare e occorre che chi vede una possibilità di cambiamento costruttivo si faccia sentire con coraggio, credo.

    P.S. Un antichissimo alla Dea Madre, personificazione della Vita, recita tra l’altro: “a niente e a nessuno è consentito rimanere quello che era.”

  • Aldo Lado

    Duemila venti, l’anno che non c’è!
    Nessun appuntamento sull’agenda, nessun progetto futuro. Il vuoto assoluto.
    Non si può programmare. Viaggi di lavoro, teatro, visite ad amici, vacanze, compleanni con figli o nipoti, restauro di una casa già previsti o abituali: tutto cancellato! Viviamo in un limbo.
    1) Quale “decisore” può comporre il conflitto tra l’opinione popolare e la competenza della tecnica?
    2) Quale sistema di relazioni e di saperi si può immaginare dopo l’accelerazione pandemica? 3) Come uscire dall’impotenza per l’assenza di un potere legittimato a governare l’innovazione?
    4) Il crepuscolo degli stati-nazione è accelerato dal virus, quale identità comunitaria?
    Credo che sia chiaro che tutto sarà diverso dopo questa pandemia che ha coinvolto tutti i popoli e le nazioni. Proprio il crepuscolo degli stati e la mancanza di una identità comunitaria determineranno l’incapacità di progettare un mondo diverso, con regole e comportamenti completamente innovativi, tali da creare un sistema di vita uguale per tutti e atto a formare un unico popolo sulla Terra: la Nazione Umana.
    Purtroppo nessun leader politico presente nel panorama internazionale ha lungimiranza e capacità visionarie tali da realizzare un progetto di simile portata, e la forza per imporlo.
    Forse solo il papa Francesco che da sempre è attento ai problemi dell’inquinamento del pianeta, che prende di petto le guerre, che chiede di destinare le risorse spese per gli armamenti a placare la fame dei più miseri, che rispetta e abbraccia gli altri credi, avrebbe la statura quanto meno per disegnare un mondo nuovo e una Nazione Unica. Ma nessuno gli darebbe retta.
    Così ciascuno potrà continuare a coltivare il suo orticello, e la pandemia della decadenza morale continuerà a dilagare.

  • Franco Fanfani

    Condivido il commento di Marilena Arancio,in particolare l’ultima parte in cui dice che il coronavirus è stato un avvertimento,forse l’ultimo prima che la natura ci presenti il conto definitivo.
    Io credo che l’essere umano sia un ospite privilegiato di questo pianeta e che dovrebbe avere cura dei beni di cui può disporre.
    L’uomo è forse l’unico organismo vivente di cui il pianeta può fare a meno perchè non essenziale per l’equilibrio biologico, anzi dannoso. Perciò mi domando se sarà prima la natura a ridurre il numero di individui per salvaguardare le risorse disponibili o se sarà esso stesso con la sua ingordigia ad autodistruggersi.

  • E’ bellissimo seguire questo dialogo a distanza tra molti. E anch’io sono colpito dal fatto che siano le donne a condurre gli argomenti in maniera più suggestiva e carica di significati ed echi.
    Posso fare una modesta proposta, che forse potrebbe aiutarci nella ricerca di un nuovo e più ricco modo di argomentare – cioè di cercare e poi esporre temi e argomenti? Forse dovremmo inventar nuovi termini per definire il nostro “rapporto con la natura”. Non siamo “diversi” o “esterni” alla natura: ne costituiamo una parte, ne siamo una tra miliardi di miliardi di componenti, e ne siamo attraversati in modi innumerevoli. Natura e uomo non sono distinti, sono una cosa sola, fanno parte del medesimo insieme.
    Potrebbe essere utile, epistemologicamente ed euristcamente, abbandonare l’abitudine a considerare l’umanità comete non appartesse al campo del naturale; abbandonare l’idea, che si è rivelata falsa che l’Uomo sia estraneo alla Natura. Abbiamo passato tre millenni a sentirci “signori del creato”, e crediamo oggi più che mai di essere cosa diversa e autonoma, e guarda che disastro…. Forse, come suggerisce Haskell, dovremmo capire che siamo noi stesi parte integrante del creato, o della Natura; che ne siamo sempre stati parte, anzi, che ne siamo compenetrati e costituiamo un tutto unico. Le popolazioni che ancora vivono in ambienti naturali lo sanno benissimo, e non si limitano a “convivere” con la Natura, credendo di dover mantenere un equilibrio: essi sanno di far parte della infinita rete di viventi che la costituisce, e si comportano di conseguenza, non limitandosi a “rispettare la natura” ma intervenendo appropriatamente su di essa: come gli aborigeni australiani che da secoli hanno appreso ad appiccare incendi in luoghi, tempi e modi controllati e contribuiscono al rinnovamento del boschi.

  • Gabriella Campioni

    Bellissimo, sì, questo dialogo… e mi fa pensare: come mai non ci riuscivamo prima, quando ci potevamo (o ci saremmo potuti) incontrare? Chissà, forse questa situazione ci sta costringendo non solo ad annodare o riannodare dialoghi, ma anche a riflettere…
    Queste le mie personali riflessioni leggendo gli ultimi commenti:
    A me sembra che ogni governo di qualunque nazione rifletta il popolo. Dunque, se vogliamo un governo più “potente” dobbiamo cambiare noi e diventare più “potenti”.
    Questa classe di governanti e amministratori si è formata a una scuola nata con l’Illuminismo (ormai passato) e fondata, ad esempio, sull’idea del profitto e della validità e accettabilità di un’idea solo se è già stata sperimentata, ossia validata da precedenti, da modelli già sperimentati.
    Se la situazione, ci dicono, è senza precedenti, non ci sono nemmeno modelli ai quali rifarsi… Ecco perché costoro non sanno che pesci pigliare, per giunta non sono stati allenati a esercitare i muscoli di un pensiero diverso, più aperto, creativo, coraggioso…
    Venendo al commento di Luca Bergo, penso che in realtà la natura l’abbiamo dentro: siamo fatti di sostanze animali, vegetali e minerali; abbiamo un tronco,piante dei piedi, albero polmonare e così via.
    E se provassimo a pensare che noi “siamo” la natura?
    In una leggenda arturiana, il Re Pescatore ha una ferita all’inguine che non guarisce (sembra quasi un mestruo, un tentativo di conquistare la dimensione femminile. Mente è malato, anche il suo regno deperisce, diventa sterile.
    Il modo per farlo guarire consiste nel fargli la domanda giusta (che non si sa quale sia). E quando accade, istantamenamente la sua ferita si risana e la natura ricomincia a fiorire perché “Il re e la Terra sono UNO”: viene detto anche nel film Excalibur.
    Non è un bel modo di interpretare il detto per cui l’uomo è il re del creato? Un re che non è al di sopra ma neanche al di sotto e che sa che curare se stesso equivale a curare la natura e viceversa.
    A proposito, secondo voi quale potrebbe essere una domanda che guarisce questa situazione e i malesseri che la Terra aveva già prima della pandemia?

  • Gian Pietro Bassani

    Siamo tutti dis-abili! Questa prospettiva senz’altro aiuta, chi vuole aiutarsi, ad affrontare la situazione in maniera propositiva.
    Ho apprezzato le considerazioni sviluppate, perché tentano di uscire da schemi rigidi quali conoscenze tecniche/decisori, legittimazione a guidare l’innovazione. Ma, a me, è sembrato un tentativo incompiuto.
    Rifacendomi ad una mia personale esperienza di confinamento forzato in ospedale, quello che mi pesava era il “distacco dei tecnici e dei decisori” dalla mia vita. In un momento di rabbia e di mancanza di speranza ho detto al medico: “Il tornitore è più sensibile con il suo pezzo di ferro, che non voi medici con i vostri malati!” Silenzio! È quello che sento anche adesso. Chi decide o si presenta come decisore manifesta lo stesso comportamento. A questo cerco di ribellarmi.
    Ma tutti i commenti che mi capita di leggere o ascoltare mi pare affrontino “la questione” solo da un punto di vista o tecnico o scientifico.
    Vedono l’uomo come una macchina da rimettere un moto, in efficienza; mi sembra dimentichino l’altro elemento dell’uomo, la parte emozionale, quasi fosse qualcosa di irrazionale. L’irrazionalità fa parte di noi, non è negatività, è ciò che ci spinge verso il non conosciuto; getta il cuore oltre l’ostacolo, si diceva una volta; il cuore, non il cervello. E per restare in tema: “il cervello non si apre, se non si apre il cuore”, mi pare lo dicesse Platone.
    Dicevo di tentativo incompiuto, all’inizio: mi sembra si demandi tutto agli esperti di diverso genere (titolari di competenze tecniche, decisori politici, poteri legittimi/legittimati) la responsabilità di salvarmi e io? Che funzione ho? Solo quella di subire? Non ho competenze tecniche, non potere politico, l’unico potere che ho, sta nelle mie emozioni. Ma di questo nessuno (tecnici, scienziati, politici e anche gente comune) ne parla; tutti impegnati ad accantonarle o a nasconderle o peggio ancora ad ignorarle.
    E chi è stato per lungo tempo in quarantena sa quanto sia pesante questa situazione, che rischia di minare il successo del recupero.
    “Speriamo che la quarantena finisca”, ma è vera speranza o solo scaramanzia? La vera speranza è attiva; ma come può essere attiva se tutti cercano di imbrigliare la forza che sta nelle emozioni e non aiutano a indirizzarle? Ma senza speranza, come diceva Eraclito, non troverai l’insperato.
    Comunque ritengo che il grande valore dell’articolo sia nel porre la questione nella prospettiva della riabilitazione. Il che significa, almeno per me:
    • che siamo molto limitati, se basta un essere invisibile a mettere in crisi un sistema che si ritiene onnipotente, a farmi sentire incapace e non so a che santo (o santoni e fattucchieri, che urlano e insultano) votarmi.
    • che quanto è successo l’abbiamo causato noi.
    • che forse conviene cambiare paradigma. I segnali sono stati mandati, ma non c’è peggior cieco di chi non vuole vedere e peggior sordo di chi non voglia sentire.
    • che non possiamo salvarci da soli; che dobbiamo uscire dal nostro guscio e rivedere il nostro agire.
    Se questi pensieri ci guideranno durante questa lunga quarantena, dalla stessa ne usciremo e se controlliamo il senso di onnipotenza, forse la ubris non ci colpirà.
    E tanti auguri a chi in questo momento ha delle responsabilità dirette (governo e maggioranza) e indirette (opposizione) per una gestione positiva della crisi e affinchè si sforzino a non comportarsi come cani che fanno pipì in giro per segnare il territorio. Il territorio siamo tutti noi e abbiamo bisogno d’altro per rinforzare la responsabilità individuale, senza la quale la riabilitazione non ci sarà.
    E grazie Carlo che ci costringi a riflettere!

  • Alberto Rinolfi

    L’importanza della tecnica medica ufficiale nelle decisioni dello Stato emerge in modo evidente in situazioni pandemiche indipendentemente che piaccia o no. Questo dato di fatto oltre a comportare vantaggi e rischi su vari piani , a seconda di come vengono attivati gli interventi, accentua anche il rischio della spersonalizzazione dei rapporti umani. Riconoscere il valore delle emozioni è un passo sulla strada dell’empatia ma il cambio di paradigma richiesto va ben oltre. Ha a che fare con il controllo della volontà di prevaricazione e di superamento di ogni limite che alimenta il nostro senso di onnipotenza come ci ricorda Pietro Bassani. Su questo schema di pensiero e di azione si è fondata la civiltà contemporanea e proprio con questo paradigma sembra giunto il momento di fare i conti.

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