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Clima, acqua e sicurezza alimentare europea

– di Mauro Balboni (*)

Giugno 2022, Italia. “È la tempesta perfetta. 70% in meno di neve durante l’inverno, quattro mesi senza pioggia e temperature di 3 o 4 gradi oltre la media del periodo. L’estate non è ancora cominciata, ma sembra di essere a metà o a fine luglio”. Così spiega la situazione Meuccio Berselli dell’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po[1]. Simili situazioni vengono riportare per mezza Europa: in molte zone le temperature di maggio e giugno hanno superato i record delle temperature misurate finora.

Tutti siamo, almeno intuitivamente, a conoscenza degli effetti più immediati di questa situazione sul nostro benessere e sulla nostra salute, ma quale influenza hanno questi fenomeni su quello che mangiamo? In val Padana si vedono già campi di mais il cui raccolto è compromesso. Le prime stime sulla imminente raccolta di frumento e altri cereali autunno-vernini parlano di un 30% di perdita di raccolto. E già nel 2021 furono la siccità e il calore inusuale nelle grandi zone cerealicole canadesi a causare la perdita di metà della produzione attesa e fare praticamente raddoppiare globalmente i prezzi del grano duro, incluso quello importato o prodotto in Italia per l’italianissima pasta.

                                Fonte: FAO

Nel rapporto Cereal Outlook di giugno 2022 della FAO, le previsioni circa il raccolto cerealicolo mondiale 2022/2023 menzionano una volta le gravi incertezze dovute alla guerra in Ucraina, ma citano almeno mezza dozzina di volte, per altre grandi zone di produzione agricola, la siccità e le ondate di calore estremo. Che ci sono sempre state, obietterà qualcuno. Certo: ma oggi parliamo di aumento della frequenza e intensità anche in zone del mondo dove queste non erano abituali. In altre parole: il cambiamento climatico. Dobbiamo preoccuparci? Sarà questa la “nuova normalità”?

La risposta è: sì. Tutto questo avrà un effetto sia sulla disponibilità di varie derrate agricole che sui prezzi dei generi alimentari. E quindi, oltre che preoccuparci, dobbiamo occuparcene. Le previsioni dei modelli climatici (corroborate dalle misurazioni degli ultimi decenni, basti pensare alla serie di annate caldo-siccitose dal 2003 in poi) non lasciano molti dubbi: per l’intero bacino del mediterraneo (Europa meridionale e Italia incluse, quindi) e per parti dell’Europa centroccidentale il cambiamento assume le sembianze più classiche: calore estremo e scarsità d’acqua, con quest’ultima che diviene fattore di conflitti intersettoriali.

In pratica, si prospetta un futuro in cui non ne avremo a sufficienza per tutti gli usi, agricoli, residenziali, industriali, turistici, ecc. particolarmente nella stagione estiva. L’impatto sulla sicurezza alimentare è chiaro: le piante agrarie, oltre certi limiti di temperatura e sotto certe quantità d’acqua distribuite nelle fasi fenologiche cruciali del ciclo colturale, producono meno o non producono affatto. C’è da dire che questi fenomeni non sono i soli ad avere un potenziale impatto sulla produzione di biomassa vegetale edibile. Non si tratta solo di estati aride e bollenti, quindi.

Le sequenze di inverni sempre più miti, e le temperature inusualmente miti di inizio primavera, hanno già permesso di misurare anticipi di germogliazione e fioritura per varie specie vegetali sia spontanee che coltivate. Il che le espone al rischio di abbassamenti di temperatura tardivi che troverebbero quindi le piante stesse in una fase fenologica non abituata a sopportare temperature sotto un certo limite. Con il rischio di compromettere l’intero raccolto. Lo sfasamento dei cicli colturali rispetto ai “nuovi” decorsi meteorologici stagionali (alterati dal cambiamento climatico) è quindi un altro dei fattori di rischio da affrontare. 

La criticità delle previsioni per l’Europa mediterranea è ben presente ormai da anni nella documentazione ufficiale: si rimanda, tra le altre fonti, al Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico[2] e all’Agenzia Ambientale Europea[3] per ogni sorta di dettagli. Tuttavia, come scrivo nel mio recentissimo Il Pianeta dei frigoriferi (Scienza Express, 2022), non ritengo si sia ancora presa coscienza della gravità delle prospettive sulla nostra sicurezza alimentare, soprattutto al livello che conta, quello decisionale e quindi politico.

A livello europeo, la Politica Agricola Comunitaria nella sua presente forma non è certo uno strumento per affrontare il cambiamento climatico. Anche il principale documento di indirizzo sulle future politiche, il noto Farm to Fork[4], si mantiene molto generico sulla questione. Eppure, un’agenda su sicurezza alimentare e cambiamento climatico in Italia e in Europa è a mio parere ormai ineludibile e urgente.

I vari strumenti di intervento, per preparare l’adattamento delle nostre filiere alimentari ad un clima che sta comunque cambiando (e di cui possiamo ormai solo mitigare l’entità del cambiamento), possono essere facilmente identificati. Il tema è vasto e, senza pretesa di essere esaustivi in questo articolo, non è difficile vedere alcune aree prioritarie. Si parte dalla tecnologia dell’acqua: come la si raccoglie, conserva, distribuisce senza sprechi e inefficienze, fino a come la si somministra alle colture con l’aiuto di tecnologie digitali e meccatroniche per determinare lo stato reale di necessità della coltura e metodi e tempi di somministrazione ottimale, diminuendo quindi la quantità complessiva da erogare. 

Si continua con la valutazione agronomica di quali colture sono e saranno sempre più quelle adatte a condizioni climatiche diverse (si sperimenta già con le colture del cosiddetto “tropicale europeo” quali avocado e mango anche se, a mio avviso, ne andrebbe prima verificata la adattabilità alle condizioni siccitose). Si dovrebbe poi investire nella sperimentazione su sistemi agronomici diversi dalle attuali monocolture (per esempio sistemi policolturali o di agroforestazione) se questi forniscono un effettivo “vantaggio climatico”. Anche i sistemi colturali conservativi (che riducono o eliminano le lavorazioni del terreno e quindi ne conservano il tenore idrico), possono giocare un ruolo importante.

E si deve poi intraprendere (o permettere lo si faccia) la ricerca genetica mirata a sviluppare varietà colturali tolleranti ai nuovi fattori di pressione selettiva, come quelli già elencati: il calore eccedente certi intervalli ottimali per le colture, e la capacità di produrre biomassa con quantità di acqua inferiori a quelle odierne.  Si attende, da parte della Commissione Europea, un documento ufficiale con almeno un “ordine di marcia” previsto per metà 2023.

Senza dimenticare opzioni, a questo punto delle cose, ancora limitate ma di indubbio interesse: la prospettiva di produrre almeno certi tipi di colture ortofrutticole in ambiente controllato con sistemi idroponici o aeroponici (che comportano un consumo d’acqua minimale rispetto al pieno campo); oppure quella di sostituire almeno parte dell’enorme consumo di carne ricostituita e trasformata, così come la produzione di mangime per animali di allevamento,  con farina proteica di insetti, anche questa prodotta con molto minore consumo di acqua.

Le opzioni ci sono, come scrivo nel Pianeta dei Frigoriferi nel capitolo intitolato «Figli di un cambiamento climatico»[5]. La volontà politica, al momento assente, potrebbe dare un segnale di responsabilità cominciando con lo svincolare dai sussidi agricoli una porzione sufficiente dei fondi della Politica Agricola Comunitaria e destinarla al tema specifico: come prepariamo l’adattamento della nostra alimentazione a un’Europa sempre più arida e calda? Da quanto velocemente o meno cominceremo il processo di adattamento dipenderanno il suo costo economico e sociale e, quindi, le conseguenze per ciascuno di noi. Una cosa è certa: se non decidiamo noi, il cambiamento climatico deciderà per noi.

 

 

(*) Laureato in Scienze Agrarie, R&S nell’industria agrochimica, scrive sui temi della sicurezza alimentare globale e dell’impronta del cibo sulle risorse e gli ecosistemi.

[1] https://it.euronews.com/2022/06/27/siccita-italia-verso-lo-stademergenza-nazionale

[2] https://ipccitalia.cmcc.it/

[3] https://www.eea.europa.eu/themes/climate-change-adaptation/

[4] https://ec.europa.eu/food/horizontal-topics/farm-fork-strategy_en

[5] https://scienzaexpress.it/libro/il-pianeta-dei-frigoriferi/

 

Il pianeta dei frigoriferi - 2a Parte

Riprendiamo l’intervista a Mauro Balboni sui contenuti del suo libro appena pubblicato  Il pianeta dei frigoriferi. Segnali dal futuro del cibo, un argomento caro all’autore che ne aveva affrontato aspetti e prospettive nel suo precedente lavoro Il pianeta mangiato.

Dopo aver evidenziato – nella prima parte – tendenze, problemi, sostenibilità, Balboni prosegue con scelte, soluzioni, ostacoli:

 

D. Il libro aiuta noi consumatori a fare scelte informate? In che modo?

R. Negli ultimi anni è scoppiato il «business della sostenibilità». Nel quale però i consumatori hanno bisogno di regole. Se ne è accorta anche la Commissione Europea che ha raccolto dati interessanti al proposito: almeno 200 schemi usati nella sola UE (in vari settori, non solo quello alimentare) per calcolare l’impronta ambientale dei prodotti; almeno 80 schemi di calcolo delle emissioni climalteranti usati internazionalmente. Spesso si tratta di metodi serissimi, sviluppati a livello universitario e sottoposti a revisione scientifica paritaria. Altre volte (secondo la UE almeno il 50% dei casi) si tratta di green claims (tradurrei con “pretese ecologiche”) messe sull’etichetta o la confezione alimentare senza troppe garanzie per chi compra. E senza garanzie che servano in effetti a qualcosa dal punto di vista ecologico o climatico. Il libro aiuta a comprendere queste situazioni e a mettere nel giusto contesto questi sforzi individuali, di per sé apprezzabili. Ma quanto risolutivi?

D. Abbiamo parlato dei problemi. Le soluzioni?

R. Quando arriva questa domanda, la tendenza è oggi quella di saltare subito a qualche conclusione preconfezionata. Quella che fa più comodo a ciascuno di noi: non mangiare più questo, mangiare solo quello e via dicendo. Ignorando che le nostre scelte individuali, per quanto condivisibili, non risolvono nulla se non raggiungono la scala necessaria attraverso le scelte della politica.  Il Pianeta dei frigoriferi ha l’ambizione di agevolare un reset generale del dibattito sul cibo: partiamo dai dati e mettiamo sul tavolo tutte le opzioni, senza preclusioni ideologiche. Usiamo tutte le risorse che abbiamo dove queste aggiungano valore: genetiche, chimiche, biologiche, biomimetiche, digitali, meccatroniche. Guardiamo anche a quello che abbiamo fatto di buono in passato (penso ai sistemi policolturali, rispetto alle monocolture, che potrebbero avere un ruolo nell’adattamento al cambiamento climatico). Non ci sarà una soluzione buona per tutti gli usi, ma molte componenti concorreranno alla soluzione.  Una cosa è chiara: dobbiamo produrre più cibo con meno risorse, a cominciare da quelle critiche come terra fertile e acqua e senza ulteriore danno ai servizi ecosistemici.

D. Vedi ostacoli?

R. In Europa prima di tutto culturali. Il dibattito sul futuro del cibo sembra oggi flesso all’indietro: torniamo a fare quello che facevamo “una volta”, in un buon tempo andato agreste in cui si sarebbe vissuti meglio e si sarebbe mangiato più sano. Senza che le statistiche demografiche, sociali e sanitarie lo confermino. Ma tutto quello che abbiamo visto prima sembra puntare verso un veloce e drammatico cambio di paradigma: abituati a pensare che il problema sia quello di mangiare senza qualcosa, potremmo trovarci presto davanti a scelte indispensabili per non rimanere senza mangiare. In questo contesto non aiuta il fatto che globalmente, secondo l’OCSE, meno del 10% dei miliardi di euro trasferiti ogni anno al settore sono dedicati all’innovazione. Serve una governance interdisciplinare, sia a livello nazionale sia a livello globale, sul futuro del cibo.

 D. Per chiudere, un messaggio di fiducia.

R. Il Pianeta dei frigoriferi è un inno alla fiducia. Per tutta la storia umana ci siamo appropriati di capitale naturale per produrre cibo: una maniera elegante per dire che da 10.000 anni deforestiamo per procurarci campi coltivati e pascoli. Ma prendiamo ora l’Italia: dal 1960 a oggi la superficie agricola è dimezzata, in compenso quella forestale è aumentata di milioni di ettari (portandosi dietro un ritorno della fauna selvatica, per certe specie prodigioso). Eppure gli italiani mangiano come non mai nella loro storia, al punto che oggi mangiano troppo e male (come dimostrano le drammatiche statistiche sull’aumento di sovrappeso e obesità, adulta e infantile). È quindi possibile disaccoppiare l’aumento della produzione agraria dall’aumento del consumo di terra. Bisogna però produrre di più e meglio sulla terra che ci è rimasta.

Serra sotterranea a Londra

Possiamo farlo. In effetti, l’abbiamo già fatto.

Ora dobbiamo guardare oltre i paradigmi conosciuti perché la sfida è più grande. Alcune opzioni oggi poco popolari (penso alle nuove proteine, alla produzione vegetale in verticale, e nel libro visito anche una serra sotterranea, alla combinazione tra biologia e digitale e via dicendo) tra una generazione saranno la normalità.

Tornerà tutto come era una volta? No, e per fortuna. I mangiatori del 2050 saranno abitatori della metropoli globale e non avranno che vaghe idee dell’agricoltura “di una volta”. L’importante è che il loro cibo sia coerente con le altre drammatiche sfide di oggi e domani: non solo sfamare il mondo ma mitigare il cambiamento climatico e salvare la biodiversità.

 

 

Per chi vuole saperne di più: Il pianeta dei frigoriferi. Segnali dal futuro del cibo (Scienza Express, 2022), fresco di stampa. 

 

Il pianeta dei frigoriferi - 1a Parte

Intervista all’Autore

Abbiamo conosciuto Mauro Balboni con il suo primo libro, Il pianeta mangiato. Lo ritroviamo adesso con il suo nuovo lavoro: Il pianeta dei frigoriferi. Segnali dal futuro del cibo (Scienza Express, maggio 2022).

D. Allora, Mauro: di cosa parla e perché questo titolo?

R. Il pianeta dei frigoriferi. Segnali dal futuro del cibo è un viaggio alla ricerca di segnali che ci consentano di capire che cosa realmente mangeremo nel 2050, e come lo produrremo. Alcuni trend sono già perfettamente visibili, altri meno. Alcuni richiedono una certa immaginazione per vederne un’applicazione di massa. Perché i frigoriferi nel titolo? Perché non esiste elettrodomestico che abbia avuto maggiore impatto sul nostro stile alimentare. Ebbene, ci abbiamo messo un secolo per arrivare al primo miliardo di frigoriferi; ma non è certo finita qui: il secondo miliardo si sta aggiungendo esattamente ora, nel volgere di pochi anni. Infatti se lo stanno comprando in massa i nuovi consumatori del mondo in Asia e Africa; questo sta causando il cambiamento finale nella geografia agroalimentare del mondo. Aumentando la pressione sulle risorse necessarie a produrre il cibo, come acqua e terra fertile.

D. Che bisogno c’era di un libro su questi temi?

R. Nel dibattito sul futuro del cibo c’è urgente bisogno di resettare sia il tipo di argomenti sia il tono con cui vengono trattati. C’è un solo modo per farlo: ripartire dai dati e dalle statistiche. Dobbiamo avere una descrizione realistica e affidabile di dove sta andando il mondo, se vogliamo cambiarlo. Faccio un paio di rapidi esempi. Dal 1960 ad oggi, secondo FAO e Banca Mondiale, la quantità di terra agricola a disposizione di ogni essere umano si è dimezzata. Nello stesso lasso temporale, un’enorme entità come la Cina ha raddoppiato la disponibilità calorica pro capite dei propri cittadini (da 1500 a 3000 kcal giornaliere, poco sotto quella americana e europea). Ad inizio 2022, la stessa Cina deteneva oltre metà degli stock mondiali di cereali. Al contrario, qui in Europa, nella nuova strategia agricola comunitaria (la nota Farm to Fork) si pensa a produrre di meno per unità di superficie. I casi sono due: o i cinesi esagerano o noi abbiamo perso contatto con la realtà.   

D. Qual è il problema di fondo?

R. Da una parte una combinazione di eventi che sta causando una crescita della domanda globale di cibo che non ha precedenti nella storia umana: la crescita demografica, che continua al ritmo di 80 milioni di nuove bocche ogni anno; il più massiccio esodo rurale della storia, con relativa urbanizzazione (3 milioni di persone che lasciano le campagne per sempre, da qualche parte nel mondo, ogni settimana!); la crescita del reddito disponibile alle famiglie in interi continenti fino a pochi anni fa lasciati indietro. Questi fenomeni stanno avvenendo su una scala e a una velocità che non ha precedenti e stanno cambiando l’alimentazione globale. Dall’altra parte, però, come esempio di varie altre criticità, il drammatico fenomeno del calo della terra agricola a disposizione di ogni essere umano: come detto, è dimezzata dagli anni ’60 ad oggi. Questo genera già tensioni. Non a caso, uno dei capitoli del libro si chiama La fame di terra.

D. Non abbiamo altre riserve di terra disponibili per nuove colture e allevamenti?

R. Gran parte della terra migliore esistente sul pianeta è già stata messa a coltura nel corso della storia. Oggi siamo a circa un miliardo e mezzo di ettari coltivati (50 volte l’intera superficie italiana, per capirci). Secondo varie stime, resterebbero non più di altri 400 milioni di ettari adatti all’agricoltura. Ma ecco il problema: sono principalmente sotto ecosistemi forestali intatti, o quasi, in Sudamerica, Africa e Asia sudorientale. Proprio quelli che, firmando un trattato dopo l’altro, ci siamo impegnati a salvare per mitigare il cambiamento climatico e salvare quanto resta della biodiversità. È vero che ci sono enormi superfici a pascolo, in gran parte ad allevamento estensivo o usato per pastoralismo di sussistenza: ma si tratta di ecosistemi che sono rimasti a pascolo proprio perché difficili o impossibili da coltivare, nei quali l’allevamento è stato l’unico modo per ricavare calorie edibili. No, non abbiamo nuove frontiere da dissodare; dobbiamo produrre più cibo con la terra che abbiamo. Produrre di più con meno e in modi più intelligenti: un tema che oggi affiora continuamente e non solo in riferimento al cibo.

D. Raccontaci in sintesi i temi principali sui quali verte il libro.

R. Quasi scherzando (ma in realtà è argomento serissimo, visto per esempio l’uso e abuso di informazioni che è stato fatto con il Covid 19), possiamo proprio dire che Il Pianeta dei frigoriferi è «in missione per conto di dati e statistiche». Indispensabile: in un dibattito, come quello sul cibo, orientato da storytelling e aneddoti spesso affascinanti ma non sempre basati su dati solidissimi. Per prima cosa il libro si occupa di mettere in chiaro le grandi tendenze già in atto e che non faremo sparire con una bacchetta magica: l’enorme crescita della domanda globale di cibo (trainata ora dall’Asia); la pervasiva presenza della grande industria alimentare nel determinare anche le nostre scelte “alternative” (dal vegan al bio) ormai elementi non più di “rivoluzione” ma di segmentazione di marketing; la già ricordata diminuzione drammatica della terra agricola se misurata per ogni essere umano; il cambiamento climatico. Poi passa a raccontare alcune delle opzioni che animano, e spesso infiammano, il dibattito: le proteine animali e la loro sostituzione; l’intensificazione agricola sostenibile attraverso la rivoluzione digitale; lo spostamento della produzione vegetale nell’ambiente costruito (variamente chiamato indoor o verticale).  

D. Quanto tempo abbiamo per risolvere i problemi da te evidenziati?

R. Poco. E questo è uno dei motivi che mi hanno spinto a scriverlo. I fattori sociali ed economici visti prima sono inarrestabili: non si vede traccia di felice frugalità alimentare di massa, di ritorni alla campagna, ecc. La domanda globale di cibo è e rimarrà in aumento per decenni. Quindi – semplificando un po’ – direi che il fattore determinante per i tempi sarà il cambiamento climatico, particolarmente in quelle aree del mondo dove si concentrano i fenomeni più negativi per la produzione agraria. E l’intero bacino del Mediterraneo è una di quelle con le previsioni peggiori. Personalmente, e lo spiego nel capitolo Figli di un cambiamento climatico, considero l’aumento di 1,5 gradi pressoché inevitabile e già entro la fine della prossima decade. Per resettare la nostra intera catena alimentare, questo significa che siamo vicini alla mezzanotte e dobbiamo prepararci velocemente a coltivare colture diverse, oppure colture conosciute ma con varietà adattate ad un clima diverso e con sistemi agronomici adattati al cambiamento. (continua)

 

Sostenibilità: l’araba fenice di oggi? - 2a parte

– di Gabriella Campioni (*)

Tra le righe delle ricerche sulla sostenibilità attualmente in corso, per quanto lodevoli e impegnate, tuttavia leggo un tratto comune che, a mio personalissimo avviso, può inficiare i risultati. Mi riferisco ad un atteggiamento del tipo: “Terra, IO ti ho danneggiato, adesso IO ti medico”… Il che, ancor più tra le righe, dice che noi esseri umani e la Terra siamo separati, un concetto di cartesiana memoria. Non ci sentiamo elementi interagenti con il sistema: ci sentiamo “governatori” del sistema, dotati di un’intelligenza (e di un potere) superiori ai suoi. Salvo poi stupirci amaramente a fronte di un sisma, di uno tsunami, di un pandemia o semplicemente di un lungo periodo di siccità come l’attuale, anche se se ne parla poco o niente.

Tra l’altro questo “IO ti medico” si risolve spesso in pezze appiccicate qua e là su un tessuto ormai logoro. O, per lo meno, è il rischio che vedo quando sento parare di agricoltura sostenibile, architettura sostenibile, società sostenibile, eccetera. Mi sembrano ‘orticelli chiusi’ (hortus conclusus) che tengono in conto scarso o nullo il grande giardino – il sistema – di cui sono parte e al quale sono indissolubilmente legati. Posso coltivare organicamente il mio campo, ma non posso impedire che mi arrivino agenti inquinanti con gli insetti, con l’aria, con l’acqua…

Una vera sostenibilità deve avere, almeno come obiettivo, il quadro grande e lungimirante, vedere oltre ciò che cade sotto il proprio sguardo in quel dato momento.

                    La piramide di Maslow

Tutto ciò, a mio avviso, si applica anche a livello umano e sociale. Posso nutrirmi in modo sano e parlare di pace e fratellanza, ma nel contempo mettere telecamere ovunque, pretendere decreti sanzionatori, incarcerare chi commette reati, munirmi di porta blindata e inferriate… e potrei finire con il muovermi sempre meno o imparare tecniche di autodifesa per la paura del mondo “là fuori”. Gli stessi criminologi  sostengono che un paese o un rione cittadino sono sicuri quando sono vissuti, quando la gente si conosce e si parla, in tal modo creando un “sistema”, un po’ com’era con le case di ringhiera.  Serve, essendo venuto a mancare, rinfocolare quel senso di appartenenza che occupa un posto rilevante nella piramide dei bisogni fondamentali di Maslow.1

Si parla molto di disagi di varie fasce sociali: giovani, anziani, portatori di handicap, madri che lavorano… e per ognuna di esse si chiedono provvedimenti… per i quali i fondi non bastano mai. E se si cercasse di ottimizzare il rendimento di quei fondi “inventando” progetti intergenerazionali, come del resto prevedeva l’anno europeo 2012? Di progetti del genere, alcuni dei quali uniscono anche, ma non solo, la cura del territorio, in tal modo prendendo più piccioni con una fava, ne esistono. Basterebbe, almeno per cominciare, cercarli e sostenerli anziché focalizzarsi sempre e solo sulle manchevolezze lamentando che non si fa mai abbastanza.

Il succo di tutto il discorso di cui sopra vuol essere in prima battuta un messaggio molto sintetico che colgo al volo dal fisico quantistico Carlo Rovelli: “Il mondo non è fatto di sassi, ma di reti di baci.” Sta a dire che quello che conta di più non sono gli oggetti, ma le relazioni, direi meglio le interrelazioni. Lo dice la scienza più avanzata (e forse meno riconosciuta “accademicamente”), ma a me sembra molto logico e addirittura banale. L’ho sperimentato molte volte, nella mia vita, soprattutto quando implementavo certi progetti nel mio paesello. Quanto meno, anche con l ‘aiuto della tecnologia, occorre fare rete.

In seconda battuta, ma restando sempre nel messaggio di Rovelli, il succo del discorso sta nella parola “baci”. Non basta uscire dalla separazione uomo-natura, occorre sviluppare la dimensione affettiva, se non proprio (o non ancora) “sentirsi natura”. Se si amano le piante, gli animali, i luoghi, le cose e le persone, il know-how (comunque indispensabile) potrà raggiungere risultati migliori  senza, o con meno, effetti collaterali indesiderati. Senza contare che ci sarebbe meno bisogno di decreti o leggi corredati da sanzioni per gli inadempienti. E soprattutto si vivrebbe meglio: anche gli ‘addetti ai lavori’ che potrebbero trarne grande soddisfazione e piacere in ciò che fanno.

Pachamama, la divinità madre della Vita per le popolazioni andine.

Chi ha sempre questa relazione “affettiva” con la Natura sono i popoli  cosiddetti primitivi, tuttora guardiani devoti della “Pachamama” che però stiamo cercando di estinguere. Non si tratta certo di tornare a vivere nelle capanne, ma quel loro atteggiamento sì, potremmo recuperarlo.

Qualcuno, a simili discorsi, mi ha obiettato che è una questione di educazione (o non-educazione) ricevuta. Vero, ma perché dobbiamo sempre dare la colpa a qualcuno, col risultato di sentirci vittime impotenti e di perpetuare la situazione? Non potremmo decidere autonomamente di fare un passo fuori dalla comfort zone, ovvero dalle abitudini, anche di pensiero, acquisite e scegliere una vita più armoniosa? Secondo me, sarebbe un bel salto di dignità… e il riappropriarci di un potere.

 

 

 

(*) Educatrice – Istituto Cosmòs e MondoHonline

La prima parte dell’articolo è stata pubblicata il  22 aprile 2022

 

1 – Abraham Harold Maslow  è stato uno psicologo statunitense, principalmente noto per la sua teoria sulla gerarchizzazione dei bisogni, la cosiddetta piramide di Maslow.  

 

 

Sostenibilità: l’araba fenice di oggi? - 1a parte

          Sostenere

– di Gabriella Campioni (*)

Sostenibilità: ecco una parola che ricorre sempre più frequentemente e si trova, trasformata in aggettivo, applicata a svariati ambiti: agricoltura, economia, architettura, società e così via. Ma che cosa significa davvero “sostenibilità” e perché è importante trovarla?  Credo che la situazione che stiamo vivendo da tempo, e che si è aggravata negli ultimi due anni, richieda una riflessione da parte non solo dei vari specialisti degli ambiti di cui sopra, ma anche delle persone “comuni”… come me. Se non altro, perché, in definitiva, siamo noi che attuiamo quotidianamente certi comportamenti.

Il vocabolario Treccani informa che “sostenere”, da cui “sostenibile”, deriva da sub-tenere: tenere (da) sotto, avere un peso che grava su di sé. Alcuni sinonimi sono: supportare (o sopportare); sorreggere; farsi carico; assumersi la responsabilità; sostentare… La domanda che sorge spontanea è: chi sostiene chi, tra noi e la Terra? O forse: chi grava su chi?

In ogni caso, basandosi sulle sole parole, la questione non è chiara, perciò chiedo lumi, come sempre, alla Natura o, per semplificare il quadro, a un eco-sistema. Da quanto percepisco, in un ecosistema vigono alcune “leggi vitali” collegate le une alle altre:

1) Un sistema è un tutt’uno intero, pur comprendendo diversi elementi fittamente interagenti: è una rete.

2) C’è tutto quello che serve, ma niente di superfluo. Se un elemento c’è, è perché serve.

3) Ogni elemento serve al tutto e il tutto serve a ogni elemento: c’è un’interazione perenne.

4) Se un elemento cresce troppo, viene trasformato in modo da essere comunque utile al sistema (non esiste il concetto di rifiuto, “buttar via” o morte).

5) Se avviene uno sconvolgimento (o se entrano elementi estranei), il sistema si riorganizza in modo da sostenere l’essenziale, ovvero la Vita. In quest’ultimo punto sta quello che personalmente chiamo resilienza.

Una considerazione che mi riempie sempre di meraviglia è che ciò che il singolo e il tutto si scambiano non sono oro o diamanti: sono i rifiuti, le scorie di quel processo di combustione che è la Vita. Come ben noto, l’ossigeno, che per noi è vitale, per il mondo verde è scoria, veleno. È vero che, se morissero tutte le piante, moriremmo anche noi creature animali, ma è vero anche il viceversa: se morissero tutte le creature animali, noi inclusi, morirebbero anche le piante. C’è chi sostiene che le cellule animali siano state “inventate” dalla Natura per “consumare” e trasformare tutto quell’ossigeno che stava soffocando le piante.

Lo stesso dicasi per le “scorie organiche” animali. Ben lo sapevano i nostri avi che chiamarono Plutone (ossia ricchezza) il dio del sottoterra, della morte e degli escrementi e che fertilizzavano i campi con il letame. In un mito sulla fondazione di Atene, il re decreta che i defunti vengano sepolti in campi aperti perché fungano da concime per il grano per i vivi. C’è persino una fiaba dei Fratelli Grimm che parla di un asino “che cacava monete d’oro”. In   antiche civiltà soprattutto matrilineari, i defunti venivano sepolti in posizione fetale perché fossero ri-generati nell’utero di Madre Terra. Insomma, un’interazione incessante anche fra il sopra, dove la vita è manifesta, e il sotto, dove avviene la gestazione… per quel continuum che è la Vita.

È uno scambio per il quale, come intuito da Lavoisier oltre duecento anni fa, “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Nulla si aggiunge, nulla si toglie: c’è già tutto. E se fosse anche che, in realtà, nulla nasce, nulla muore: tutto vive, per quanto in dimensioni o con frequenze diverse, non percepibili con i nostri sensi? Un po’ come i raggi ultravioletti, che non vediamo, ma ci sono, eccome!

Tornando alle scorie, mi sembra già di sentire qualcuno che dice: con tutte quelle che produciamo, la Natura dovrebbe prosperare alla grande e magari ringraziarci pure… Beh, pare che uno studio della Boston University[1] rilevi che le foreste urbane o comunque in zone “sporche” crescano molto in fretta e sequestrino molto carbonio… Come a dire che la natura fa gli straordinari per aiutarci… nonostante noi. Ma la risposta, ovviamente, è ben diversa. In primo luogo, i veleni che immettiamo sono frutto di manipolazioni artificiali, non riconoscibili dalla Natura; in secondo luogo, distruggiamo le aree naturali; in terzo luogo, consumiamo più di quanto la Terra sia in grado di ri-generare. Si veda in proposito Il lavoro del Global Footprint Network, che spiega molto bene quanto insano e autolesionistico sia il nostro comportamento, che ci spinge persino a consumare risorse… non ancora prodotte dalla Terra![2]

 

(*) Educatrice – Istituto Cosmòs e MondoHonline

 

[1] https://resoilfoundation.org/ambiente/foreste-urbane-clima/?utm_source=facebook&utm_medium=cpc_mofu&utm_campaign=foreste&fbclid=IwAR0g9jE4ek5i_nb0TeYcBbMpSOkiiGOCCutqKQA-QRuUc9LPy_eOFrX3nHg

[2] Il Global Footprint Network, un organismo internazionale molto attivo, calcola tra l’altro lo Overshoot day, il giorno in cui esauriamo le risorse dell’anno in corso e cominciamo a intaccare  quelle dell’anno successivo. La data, che anticipa ogni anno, varia da nazione a nazione. Dal loro sito, risulta che, per l’Olanda, è il 12 aprile 2022, ossia è già scaduto, e che questo Paese si comporta come se avesse a disposizione 3,6 pianeti. Ma nemmeno noi siamo messi troppo bene, inoltre la pandemia e la guerra in Ucraina hanno aggravato pesantemente la situazione. https://www.footprintnetwork.org/   

 

Alla ricerca dell'acqua nascosta: divertita, amata, goduta

Lo scorso 14 dicembre 2021 si è svolto il webinar  con la presentazione del trailer delle interviste  ai ragazzi dell’Istituto Rizzoli sul tema proposto, per sollecitarne impressioni, emozioni, e pensieri in libertà, prima di affrontare un percorso di crescita nel mondo dell’acqua invisibile e nascosta. Il trailer al docufilm è sul canale Youtube di Mondohonline.  

Il webinar è stato molto seguito, e ha stimolato commenti e considerazioni. Eccone alcuni:

L’acqua da importante a divertente – da Gabriella Campioni (*)

Ho molto apprezzato sia l’attenzione dei ragazzi (non solo perché hanno dimostrato di gradire il video loro dedicato), sia gli interventi degli esperti, i quali hanno messo in gioco una grande competenza, una preparazione accurata per la circostanza, ma anche la passione per quello che fanno.

Questo, secondo la mia prospettiva da ex insegnante e ricercatrice in vari ambiti, è un punto sul quale vale la pena  riflettere, anche richiamando alcune testimonianze dei ragazzi e tenendo conto del fatto che essi stanno acquisendo abilità professionali.

Per molti, il lavoro è un obbligo al quale è giocoforza sottostare per guadagnare di che vivere, se non una “galera”. La passione per ciò che si fa non solo garantisce migliori risultati produttivi, ma rende le giornate lavorative più ricche e, cosa ben più importante, rende le persone consapevoli di sé e del proprio ruolo nel mondo… e felici. Vedo in questo la miglior definizione di “successo”… e non è forse la felicità che desideriamo più di ogni altra cosa per i nostri figli?

Uno dei ragazzi intervistati nel video ha indicato un’interessante distinzione fra “importante” e “divertente”. Il messaggio implicito che mi è parso di cogliere è che gli apprendimenti sono barbosi… Ma che cosa si intende per divertente, solo ridanciano o anche “appassionante”? Egli ha anche spiegato che la cosa importante viene vista a scuola (con noia?) e subito dimenticata, mentre la cosa divertente può diventare virale… E se provassimo, con il loro aiuto, a rendere divertente l’importante, superando una polarizzazione nella quale noi adulti sembriamo un po’ bloccati? Forse potremmo raggiungere meglio il nostro obiettivo della sensibilizzazione sull’acqua e non solo… e a nostra volta cresceremmo.

Andando un po’ più in profondità, vorrei notare che l’acqua non è soltanto quella “fisica”. L’approccio “scientifico” è, ovvio, importante, ma c’è il rischio di considerare questo elemento così prezioso esclusivamente da un punto di vista “utilitaristico”, una “commodity” (come è definita in certi report e da quanti vorrebbero quotarla in Borsa). L’acqua è fondamentale non solo perché indispensabile alla vita (senza essa, tutto inaridisce e muore), ma anche perché è una qualità del nostro essere che si manifesta in vari modi. Ad esempio, nella capacità di “fluire” con la vita adattandosi all’ambiente e alle circostanze, oltre che nella sfera emozionale e onirica, tutti aspetti altrettanto “sacri” e importanti per vivere in modo fecondo. Noi “siamo” acqua, insomma, non solo perché fisicamente composti da essa all’80%…

Una ragazza del gruppo l’ha evidenziato molto bene, pur probabilmente senza rendersene pienamente conto, spiegando che, per lei, l’acqua è la pioggia, nella quale ama camminare senza ombrello perché la fa sentire più libera e la calma. Alla domanda sul motivo per cui non sia così per altri, ha risposto che forse molti non amano lasciar cadere le proprie maschere. La pioggia come lavacro che ci rende più veri e autentici, insomma. Lo trovo semplicemente splendido!

A me sembra lampante che, con un approccio integrato tra scienza, passione e psicologia, si possa ipotizzare un futuro in cui non ci sia più bisogno di regolamenti (e connesse sanzioni per i trasgressori) per un rapporto rispettoso nei confronti dell’acqua… nella quale siamo immersi durante la gestazione. L’acqua ci è Madre! Così come ci è madre la Terra, l’Aria… Una volta attivati il rispetto e l’amore, si applica naturalmente a tutto!

Per concludere, desidero plaudire a questo validissimo progetto ribadendo la speranza che possa sollecitare non solo le conoscenze sia fisiche che tecnologiche dei ragazzi, ma anche contribuire alla loro crescita personale e alla costruzione di un mondo più vivibile. Ci conto davvero molto!

… e anche amore – da Concetta Maglia (**)

Vado di getto, d’istinto e di emozione, le parti tecnico-scientifica ed ecologica, che pure sono di fondamentale importanza, le lascio alle persone qualificate.
Dico che l’acqua la percepisco simile all’amore, entrambi inafferrabili e vitali, fondamentali per e nella vita di umani, animali, vegetali. Che sia trasparente oppure torbida, mare, fiume, lago, pioggia, ci invade e ci pervade, ci costituisce in ogni cellula. Che sia pianto o nebbia, rugiada o neve, non possiamo vivere senza l’acqua, e così come per l’amore in senso universale dobbiamo averne massima cura.
I miei complimenti per la bella iniziativa, e soprattutto grazie alle generazioni del futuro, con l’augurio e la speranza che sappiano fare molto meglio e molto più di quello che abbiamo fatto noi.

… e che goduria ! – da Adele (***)

Ti racconto cosa penso io dell’acqua: quando avevo 6 anni, ero sfollata in quel di Castelnuovo Berardenga (SI). C’era la guerra. Da Genova eravamo migrati in quel paese, abitavamo nella casa della nonna Agnese. Naturalmente non vi era acqua in casa, anche se c’era l’acquaio, sempre ospitato di notte da tanti scarafaggi che fuoriuscivano dallo scarico. La mia sorellina ed io eravamo addette alla provvigione dell’acqua: con un secchio e una brocca di rame, dovevamo recarci a piedi,  per oltre due Km,  dove c’era il pozzo per attingere. Una volta che avevamo armeggiato con le catene e trovata la forza ercolina per sganciare il secchio pesante,  e riempita la brocca riservata all’acqua da bere, ci incamminavamo verso casa, spandendo acqua ad ogni passo. Che fatica!

Arrivate in cucina,  il secchio avrebbe troneggiato come riserva d’acqua, e l’umile brocca sarebbe rimasta al servizio della nostra sete. Ma un po’ dell’acqua della brocca doveva essere sacrificata per  depositarla, nella camera da letto, in una brocca di ceramica sotto il catino per lavarci la faccia. In quattro, avremmo dovuto lavarci la punta del naso con quel “bicchiere d’acqua”: mamma, nonna, Graziellina ed io. Non per niente, finita la guerra e rientrati a Genova, gli altri bambini ci appellavano “collo nero!”, abituate come eravamo a lavarci poco, nonostante la nuova sistemazione in quella città avrebbe potuto consentirlo. Ma anche a Genova c’era il problema dell’acqua per lo sciacquone del gabinetto. Nel contenitore posto sopra la catena del “cesso” ve ne era una piccola riserva ma, essendo in 6  nell’appartamento, bastava che due di noi usassero il bagno per primi, che i successivi trovavano la tazza del WC ingombra e maleodorante. Mai come la puzza tremenda di quando eravamo a Castelnuovo: là la fogna non c’era, solo un buco nero che portava gli escrementi in basso, chissà dove.

Nelle vicinanze di Castelnuovo non vi erano né fiumi, né ruscelli, né laghetti. Noi bambini sentivamo un desiderio inestinguibile di assaporare l’acqua su tutto il corpo. Quando arrivò il fronte, e tedeschi e americani si bombardavano a vicenda, una bomba fini nel campo sportivo,  provocando una enorme buca.

Piovve uno di quei giorni,  e la buca si riempì: quale gioia per noi bambini tuffarci, tutti vestiti, in quella melma! Le mamme ci sgridarono molto e dovettero portare all’Ortaccio (lavatoio comune) i nostri indumenti. L’ortaccio era una grande vasca piena d’acqua sporca, che veniva cambiata di tanto in tanto da non so chi; le mamme sbattevano i panni sporchi sugli sgocciolatoi e una volta risciacquati nell’acqua sporca,  li esponevano al sole per la disinfezione. Noi bambini,  mezzi nudi, intanto giocavamo a lanciare sassate sui ramarri che passeggiavano intorno al vascone in cerca d’acqua. Quando avevamo sete, salivamo su albero di more o di ciliegie per calmare la sete con quei frutti. Se era stagione, andavamo al Poggiarrancia a “prendere” cocomeri e meloni. Fortuna che esistono frutti succosi che possono dissetare!

 

(*) Gabriella Campioni, Educatrice – Istituto Cosmòs 

(**) Concetta Maglia, Poetessa

(***) Adele, nonna, amica di Federico Tinelli 

In viaggio verso l'acqua di Milano con la Generazione Zeta

Riflessioni sul webinar “Alla ricerca dell’acqua” di Carlo Alberto Rinolfi (*)

Dal recente webinar organizzato da Mondohonline con l’Istituto Rizzoli il 14-12-2021 sono emerse alcune sorprendenti verità che sono andate oltre le aspettative degli organizzatori.

L’intento era di scandagliare i diversi modi che ha la città di convivere con l’acqua.

Lo scenario di riferimento era quello di  Un ICEBERG: un’acqua che nel contempo è ghiaccio e aria e soprattutto enormità non visibile  in superficie, a sua volta contenuta nell’immensità di un oceano sconfinato: è la metafora di tutto ciò che non si lascia facilmente “misurare”.  Al suo fianco Due MANI  a rappresentare l’acqua che non si lascia prendere e stringere dalla volontà umana, ma la avvolge e la penetra a ricordarci che anche quelle mani accoglienti sono per il  99%  costituite da molecole di acqua.

Da queste premesse, il webinar è partito alla ricerca nel vissuto cittadino dell’acqua nascosta giocando su tre differenti piani: l’emozionale-culturale evidenziato dai ragazzi ; il cognitivo-ecoscientifico proposto dai docenti universitari  e il tecnologico-economicoproduttivo  rappresentato da un imprenditore del settore.

Sono così entrati in campo differenti  linguaggi, età e professioni sotto il segno dell’Acqua. È stato  come se ci fossero contemporaneamente tre webinar in uno e il primo è stato  per certi aspetti  il più inedito di tutti.

I ragazzi intervistati non a caso  appartengono alla Generazione Z e quindi, come i loro coetanei nati tra il 1996 e il 2012,  sono tutti  nativi digitali, concentrati sulla verità e autenticità, multiculturali e informati. Veri testimoni di un mondo digitale radicalmente differente da quello analogico nel quale sono cresciute tutte le generazioni degli altri numerosi partecipanti al webinar.

Essendo  vissuti sin dall’infanzia  in compagnia di uno smartphone,  i ragazzi della seconda B dell’Istituto Rizzoli sono da sempre on life, ovvero  connessi on line e off line senza alcuna discontinuità. Appartengono alla “True Generation” in costante  ricerca della veridicità e autenticità delle informazioni,  che genera in loro  la voglia di manifestare liberamente i propri sentimenti e di comprendere per vie non verbali la genuinità e sincerità delle persone che li circondano. Sono alla ricerca di modi di  espressione personali autentici; non gradiscono definirsi in un solo modo univoco e tendono a non distinguere tra amici incontrati online e quelli del mondo fisico. La loro comunità online ha importanza analoga alla compagnia di amici di prossimità. Si connettono tra di loro chattando e interagendo in continuazione per i video più divertenti e  seguono influencer non famosi che spesso diventano virali. Si interessano alle verità altrui, vogliono confrontarsi e parlarne e tendono a essere sempre ancorati a evidenze  realistiche.

Sono questi i ragazzi della seconda B che, per la regia di Federico Osmo Tinelli con l’aiuto del corpo docente Rizzoli, sono entrati nel mondo cinematografico ciascuno con la propria personalità che emerge in una playlist di oltre due ore, la cui sintesi  è stata presentata nel webinar. Sono loro a regalarci il loro vissuto emozionale in una avvincente carrellata di 31 video personalizzati avvolti da altrettanti sottofondi musicali appropriati.

Posti di fronte al tema dell’acqua in modo inusuale, hanno fatto emergere subito una diffusa  difficoltà nell’attribuire un valore economico all’acqua: una non conoscenza presente, seppur in misura differente, a tutta la città, ma che in loro è risultata fortemente influenzata dallo stereotipo dell’acqua minerale acquistata nel supermercato.

Ma quando sono entrate in campo le risposte qualitative, ci si è trovati in un mondo caratterizzato da diversi modi di vivere l’acqua  dai  quali  ne emergono almeno tre :

Per identificazione secondo una scala emozionale che si distribuisce tra i poli opposti di “amore e indifferenza”.

Si inizia con chi la ama  sino a “sentirsi e acqua” e diventare “persona libera” sotto la pioggia, si prosegue con chi la vive come “momento di relazione con il sé e gli amici” sotto la doccia, per arrivare a chi si altera quando la “vede sprecare” e a chi  vi si immerge “in piscina per nuotare” avendo però paura dei fondi non artificiali dei fiumi o dei mari,  infine si giunge al polo opposto di chi la usa “solo per lavorare” e chi ne “è del tutto  indifferente”.

Con il senso dello strano e del rimosso:   su un piano che non è solo emozionale, emergono due spunti inattesi per intensità e suggestione: “l’acqua che rispecchia e che diventa fiore”.

Si richiama così un carattere peculiare quasi mai considerato che la rende  “lucida”, unica, brillante e rifrangente come lo sono i diamanti più preziosi o gli specchi esposti al sole, e nella quale ci si può rispecchiare.  L’acqua che diventa meraviglia e fiore sembra invece uscire dai confini tracciati dalla biologia per assumere la dimensione quasi magica delle metamorfosi di un liquido privo di forma e incolore che scompare per rinascere nella variopinta bellezza di un giglio o di una margherita. Di segno analogo ma con significato opposto è la percezione presente solo in una intervista (e quindi probabilmente appartenente a un rimosso collettivo)  che l’acqua non sia solo quella “pulita” che appare in superficie, ma che provenga dalla terra in cui gli “scarti dell’umanità” si mescolano con la sporcizia nelle reti fognarie.

Con la consapevolezza della sua necessità che oscilla tra i poli di “vitale necessità e atavico timore.

E’ l’acqua che manifesta la sua forza e importanza vitale per la vita non solo umana.  Vi  ritroviamo da un lato le drammatiche esperienze di scarsità vissute in America Latina da città abbandonate e in Sud Africa per carenza da siccità, dall’altro quelle più legate alle attività di allevamento e di tipo agrocolturale delle fattorie turche. Tutti casi che fanno emergere il volto più potente ed essenziale dell’acqua per la sopravvivenza delle comunità locali. I punti di vista si differenziano poi tra chi percepisce l’impotenza del non vedere come poter intervenire con soluzioni efficaci  su un problema così globale e chi ne ha un’esperienza di astinenza periodica legata alla sua religione islamica, nata non a caso nel deserto. Fanno da cornice generale  alcune interviste sul miglior modo di comunicare il tema, che convergono sulla preferenza per un approccio emozionale, amicale e virale rispetto a quello scolastico tradizionale. Sembra qui di intravvedere due forme di linguaggio apparentemente incompatibili tra loro.

Da un lato quello dinamico e rizomatico¹  tipico degli ipertesti visivi, che col semplice tocco di  una icona sullo schermo fanno entrare in mondi inattesi, e dall’altro quello più statico e costruito della scrittura consequenziale che segue una logica lineare; quest’ultimo risulta meno attraente e ormai meno utile del primo, al quale Generazione Zeta è nata, e sembra riportare narrazioni sul cambiamento climatico il cui senso  è ormai acquisito ma che non innescano alcun comportamento attivo né tanto meno un coinvolgimento emotivo tra gli amici  e “raga followers”.

Ai loro colleghi di tutte le scuole è dunque dedicato il trailer ora disponibile sul canale  Youtube di Mondohonline

Al termine del webinar riaffiora  il desiderio di trovare soluzioni per intervenire nei paesi più poveri di acqua, chiarire la relazione con le variazioni del clima e  comprendere  la differenza tra l’acqua che scorre nel rubinetto rispetto a quella che si acquista al supermercato.

Il webinar è proseguito quindi su un registro differente: quello più cognitivo–razionale delle nuove scienze multidisciplinari le cui relazioni sono disponibili per i singoli campi di competenza che riguardano : l’ Agroecologia (Stefano Bocchi), la Geologia ambientale  (Laura Scesi ), la Biologia marina (Claudia Sorlini), l’Economia circolare  (Giuseppe Santagostino), la Politica con il punto di vista di Milano Città – Elena Grandi, Assessore Ambiente e Verde, Comune di Milano.

 

Carlo Alberto Rinolfi, (*) Presidente Mondohonline

Chi desiderasse accedere a  tutto il webinar  può far riferimento anche alla home page di Mondohonline.

¹) L’avvento dell’  info-mondo web  rappresenta l’affermazione  in tutto il l pianeta  del linguaggio visivo-rizomatico su quello basato sulla scrittura  nato circa 3000 anni faA differenza del linguaggio scritto su supporti fisici,  quello del  web non obbliga a seguire una  direzione di pensiero prefissata, segnala concatenazioni e lascia liberi di creare connessioni, permette il passaggio da un piano all’altro del narrato  con una navigazione  mobile, multidirezionale, flessibile  e in continua evoluzione, in modo cioè rizomatico”. Il termine rizoma significa rigonfiamento, deriva dalla botanica e sta ad indicare  la natura plurima di alcune piante erbacee che  in superficie si manifestano con un fusto o un fiore e a livello sotterraneo sono dei tuberi  con  radici e capacità di generare altri fusti. E’ la metafora del pensiero in grado di stabilire connessioni produttive in qualsiasi direzione e di avere una riserva di possibilità nascoste sotto la prima immagine che appare.

I due mondi nascosti dietro ad 1 euro

Come si configura il vissuto quotidiano dell’acqua nella generazione Zeta? Lo scopriamo con le interviste a una classe dell’Istituto Rizzoli  di Milano,  che inizia  il suo percorso di ricerca con un webinar in cui incontra  l’acqua che non si vede ma che ogni giorno entra sulle tavole dei cittadini e  quella che si  nasconde nelle falde sotterranee per dare vita alla città.

Le interviste ai ragazzi dell’ Istituto Rizzoli realizzate da Mondohonline sono ora pubbliche sul canale Youtube di MHO: il link è il seguente: https://www.youtube.com/watch?v=PEh4SmVwlrE&t=1s

 

L’intervento di Giuseppe Santagostino (*)  – Webinar 14 dicembre 2021

L’oggetto è lo stesso, l’acqua potabile, il prezzo pure, 1 euro, cambia solo la quantità: una bottiglietta da mezzo litro presa da un frigorifero all’Autogrill e 1000 litri usciti dal rubinetto di casa; la differenza diventa un po’ meno eclatante se prendo l’acqua in bottiglia al supermercato, dove la quantità da mezzo litro arriva a tre euro, ma resta un’evidente sproporzione che richiede di conoscere i due mondi produttivi retrostanti.

L’acqua in bottiglia arriva da una fonte posta lontano da tutto e proprio  la lontananza gioca spesso un ruolo fondamentale nella commercializzazione perchè l’acqua è oggetto ingombrante, povero, pesante  e incomprimibile e proprio il contenitore con cui viene trasportata racconta almeno la metà della storia scritta dietro al prezzo finale.

Tutta l’acqua, sia quella in bottiglia che quella del rubinetto, non deve toccare l’aria prima di arrivare a noi, altrimenti deve venire clorata perchè il contatto con l’aria, specie se si prolunga, introduce un  possibile elemento batterico che nell’acqua potabile per convenzione non dev’esserci.

Dunque alla fonte l’acqua, senza entrare a contatto con l’aria, deve venire imbottigliata, ovvero deve trovare pronto uno stabilimento attrezzato, dei magazzini riparati dal sole e dei capienti mezzi di trasporto, che a loro volta la recapitano in altri magazzini riparati dal sole presso i distributori, che faranno poi avere le confezioni a supermercati, negozi o mense.

Oltre all’aria, il secondo nemico dell’acqua  è infatti il sole sia perchè la presenza della luce incrementa la quantità dei temuti batteri, sia perchè il contenitore prevalente oggi, dopo decenni di uso del vetro, materiale nobilissimo e riciclabile ma assai scomodo, è la bottiglia in PET (polietilene tereftalato), materia plastica derivata dal petrolio che, come tutte le plastiche, è fotosensibile e si altera se esposta.

Dopo aver riconosciuto il prezzo di concessione della fonte al Comune dove questa sgorga, dopo aver costruito uno stabilimento moderno di imbottigliamento, dopo aver portato le bottiglie il più lontano possibile concessomi dal prezzo di vendita, devo ancora pagare il consorzio che smaltirà la plastica delle bottiglie e ne ritornerà una parte per farne delle nuove (non posso usare troppo materiale riciclato nei contenitori per alimenti), mentre il quantitativo residuale finirà a realizzare altri contenitori o altri oggetti di uso quotidiano.

Se ci sommo il frigorifero dell’Autogrill o il banco del Supermercato ecco spiegato l’euro del mezzo litro e quello dei due litri.

Più difficile è capire come possano costare solo 1 euro i mille litri che escono dal rubinetto dei milanesi. In realtà dovrebbero costarne almeno 2, secondo le stime sui servizi idrici integrati (acquedotto e fognatura) europei emerse durante un interessantissimo convegno di due anni orsono; ma Milano, grazie ad una programmazione lungimirante e alla disponibilità di acqua a livelli assai elevati nel proprio sottosuolo, ha costi assai contenuti di prelievo e distribuzione.

Il costo dell’acqua del Sindaco è infatti un mix tra costi infrastrutturali (pozzi di prelievo, impianti di potabilizzazione, stazioni di pompaggio, rete distributiva, sistema di contabilizzazione e poi linee fognarie e impianti di depurazione) e costi vivi, principalmente la corrente elettrica delle pompe che da noi fanno poca fatica ed hanno una grande platea di consumatori in un’area densa: se poi le infrastrutture sono state realizzate in modo oculato, come nel caso dell’area milanese, ecco che le quote di ammortamento sono già state spesate e non entrano nel conto.

Tra queste infrastrutture indistruttibili c’è pure il nostro sistema fognario misto progettato dai Romani (quelli antichi) e poi migliorato dai Milanesi sino alla grande sistemazione di inizio Novecento. Le due reti (acquedotto e fognatura) mostrano così costi irrisori ma nascondono a loro volta due costi occulti:

  • Per far funzionare gli apparecchi civili e industriali che non richiederebbero acqua potabile noi siamo invece costretti a sacrificare le acque nobili perchè non abbiamo un sistema di acque duali come richiesto dalla nostra legge (152/2006)
  • La fognatura mista lega in un abbraccio mortale il sistema fognario e quello fluviale, proprio grazie alla stretta integrazione dei due imposta dal sistema romano, mai abbandonato: per questo noi siamo costretti a depurare non solo tutta l’acqua, anche quella pulita, ma a farci carico anche dell’acqua di falda emunta per evitare che metropolitane e parcheggi vengano allagati e che, invece di finire in fognatura per essere poi depurata come accade oggi, potrebbe diventare la nostra acqua duale risparmiando le falde profonde.

I due sistemi produttivi delle acque minerali e di quelle del Sindaco nascondono mondi meravigliosi e costi che è bene conoscere perchè sono quelli che determinano poi le nostre spese quotidiane: nascondono entrambe dei costi nascosti con i quali prima o poi dovremo far di conto.

 

Link all’intervento: https://www.youtube.com/watch?v=ZJQplMe3ntw&t=4851s

 

(*) Imprenditore, Milano