TRATTA DEGLI SCHIAVI E MUTAMENTI AMBIENTALI TRA VECCHIO E NUOVO MONDO – di Agnese Visconti (*)
Mi propongo in queste pagine, che costituiscono una sintesi del mio articolo Tratta degli schiavi, mutamenti ambientali e conoscenze naturalistiche: Vecchio e Nuovo Mondo tra Cinquecento e Ottocento, di considerare la tratta, non tanto come fenomeno in sé, quanto piuttosto come elemento collegato ad alcune altre situazioni che caratterizzarono l’Africa e l’America dall’inizio del Cinquecento ai primi anni dell’Ottocento, con particolare attenzione ai mutamenti dei grandi quadri geografici -naturali e umani- dei due continenti.A modificare i quadri geografici del Nuovo Mondo, in primo luogo quelli umani, furono, fin dagli anni immediatamente successivi l’arrivo di Colombo, i virus portati dagli spagnoli e dai portoghesi, che fecero strage degli indigeni delle Antille. del Messico, del Guatemala e del Perù, al punto che i coloni spagnoli, che in un primo tempo avevano contato sullo sfruttamento della forza lavoro locale per le loro aziende agricole, si trovarono in poco tempo privati di quella possibilità. Fu in questa situazione che la tratta ebbe origine e si impose. Con la morte delle popolazioni indigene e l’arrivo degli schiavi che a migliaia cominciarono ad essere portati dall’Africa occidentale ai Caraibi e in seguito sulle coste atlantiche dell’America meridionale, il quadro umano risultò presto sovvertito.
Quanto a quello ambientale, il mutamento non fu meno rapido: i paesaggi del Nuovo Mondo furono infatti rimodellati dal lavoro degli schiavi sotto la direzione dei coloni, fino a diventare una copia di quelli del Vecchio. Dai virus passiamo così alle piante. Che cominciarono ad arrivare ai Caraibi e alle coste dell’America centro-meridionale: il grano, i piselli, l’insalata, le viti e gli olivi, nonché le banane con lo scopo di sfamare gli schiavi che cominciavano a giungere sempre più numerosi.
Seguì l’introduzione dello zucchero, originario dell’India, che diede l’avvio nelle Antille e sulla costa nord del Brasile all’interconnessione tra grandi monoculture e tratta degli schiavi, a cui presero parte in un primo tempo portoghesi, olandesi e spagnoli, e in seguito anche francesi e inglesi.
A partire dalla fine del Seicento la coltivazione della canna si estese, facendo salire la richiesta di schiavi. Lo zucchero coltivato nelle piantagioni del Nuovo Mondo cominciava infatti a soppiantare il miele, fino ad allora il dolcificante più diffuso in Europa.
Non molto diverso dall’intreccio della tratta con lo zucchero fu quello con il tabacco. La pianta, descritta già da Colombo dopo il suo secondo viaggio, iniziò ad essere coltivata a scopo commerciale nei Caraibi e lungo le coste del Brasile. All’inizio si trattò di piccole proprietà terriere, che in seguito furono sostituite da grandi piantagioni, analoghe a quelle di zucchero, dove lavoravano numerose squadre di schiavi.
Il tabacco fu quindi portato dagli inglesi in Virginia e Maryland, e poi nella Carolina del Nord, spostandosi sempre più a Ovest, fino a raggiungere nei primi decenni dell’Ottocento la Valle del Mississippi. La corsa verso occidente si spiega con il rapido depauperamento dei terreni, causato dalla pianta che nel giro di tre o quattro anni esauriva la fertilità dei suoli e costringeva quindi a continui dissodamenti finalizzati a guadagnare nuovi spazi alla coltura. Possiamo così dire che il tabacco contribuì, più ancora dello zucchero, a un’intensa deforestazione con gravi effetti di erosione e di dilavamento.
Di poco successivo al legame della tratta con lo zucchero e con il tabacco fu quello con il mais, che prese avvio nella metà del Seicento. Questa volta però il tragitto era inverso. Il mais viaggiava infatti con gli schiavi, ossia dall’Africa all’America. Per spiegare questo capovolgimento di percorso va tenuto presente che questo cereale, di facile coltura e di rapida crescita, si rivelò particolarmente adatto a essere utilizzato come alimento per gli schiavi durante la traversata dall’Africa all’America. Erano gli stessi schiavi, già trasportati lungo le coste del Golfo di Guinea da altre zone del continente in vista di essere trasportati in America, a coltivare mais e manioca in grandi piantagioni che si sostituirono via via ai precedenti modi di produzione e rapporti sociali, nonché paesaggi e territori.
Con la fine del Seicento all’intreccio commerciale delle piante e degli schiavi iniziarono ad aggiungersi, quali nuovi elementi destinati ad assumere un ruolo di grande rilievo, le scienze della natura che diedero origine a nuove connessioni più complesse e variegate.
I primi segnali della potenzialità delle conoscenze scientifiche per un più coerente e vantaggioso utilizzo dei territori d’oltremare arrivarono dall’Inghilterra e dalla Francia: le due nazioni in cui l’intesa tra scienze naturali e potere politico-economico aveva cominciato ad assumere forma concreta ed efficace intorno alla seconda metà del Seicento
All’interno delle serre del Jardin vennero effettuati numerosi e complessi studi sulle diverse specie vegetali, sui tipi di terreni e di climi più adatti alla loro coltura e sulle procedure necessarie per tentare il loro trasferimento e da una colonia all’altra. Un esempio della riuscita di tali esperimenti è costituito dal caffè, originario dell’Africa orientale, che venne inviato alle colonie della Martinica e della Guadalupa per esservi coltivato in grandi piantagioni dagli schiavi e quindi consumato in Europa dalla ricca borghesia in ascesa.
Responsabile al pari del caffè dell’incremento della tratta e risultato anch’esso di applicazioni scientifiche, fu l’altro prodotto rappresentativo del benessere del Settecento e dell’Ottocento europeo, il cacao, la bevanda preferita e amata dall’aristocrazia. Originaria della foresta tropicale americana, dove esiste ancora oggi allo stato selvatico, la pianta fu coltivata in grandi piantagioni e quindi consumata in Europa, dove divenne la bevanda dell’aristocrazia e in seguito, per le sue qualità nutrienti, quella dei bambini.
Gli studi sperimentali finalizzati a rendere possibile e vantaggioso il trasferimento di molte piante da Kew alle colonie furono numerosissimi. Fra tali piante, ci limitiamo qui a ricordare il cotone, oggetto, al pari del caffè, di duplice valenza: da un lato direttamente connesso con il trasporto e lo sfruttamento degli schiavi, e dall’altro protagonista delle prime invenzioni tecnico-scientifiche che accompagnarono la rivoluzione industriale.
La pianta era presente da millenni, se pur con alcune diverse caratteristiche, sia in Asia (Valle dell’Indo), che in Africa (Egitto), che in America (Perù). Fino al Seicento il cotone, che gli europei importavano dall’Egitto, era rimasto secondario rispetto agli altri tessili: la lana, il lino e la canapa, prodotti localmente. Finché con le prime tecnologie meccaniche, esso di colpo li soppiantò tutti. Ma alcune varietà di cotone si rivelarono più adatte di altre. La regolarità e la trattabilità delle fibre della pianta americana fecero sì che il cotone del Nuovo Mondo si prestasse meglio degli altri due alla lavorazione meccanica, di cui sopportava lo strappo. In tal modo la fibra americana contribuì, a partire dalla fine del Settecento, a rendere possibile l’applicazione delle grandi innovazioni tecnologiche ed ebbe inoltre un ruolo trainante nel processo di emersione del sistema di produzione industriale.
I vantaggi economici derivati, come si è visto, da un più razionale e coerente utilizzo delle piante coltivate dagli schiavi trasferiti nel Nuovo Mondo non furono l’unica conseguenza delle ricerche compiute all’interno delle istituzioni scientifiche inglesi e francesi. A tali ricerche si deve infatti anche l’avvio degli esperimenti che si svolsero, di concerto con le osservazioni effettuate dagli amministratori delle colonie, o dai coloni stessi, o dai viaggiatori, e che portarono alla formulazione delle prime teorie sui cambiamenti climatici. A quest’ultimo proposito particolare rilievo assunsero gli studi sull’intreccio fra deforestazione e siccità.
La prima nozione degli effetti del dissodamento si ebbe molto presto nelle Antille, con i primi dissodamenti che causarono, nel giro di pochi anni, problemi di dilavamento e di erosione del suolo, nonché di siccità. Sull’altro fronte, in Europa, lo scienziato inglese John Woodward stabiliva in quegli stessi anni i principi della respirazione delle piante, gettando così le basi per la comprensione dei nessi tra organismi vegetali e situazioni atmosferiche.
(*) Agnese Visconti ha insegnato Geografia nelle Università di Trieste, Milano, Pollenzo e Pavia. Attualmente si occupa dello studio dei rapporti tra storia degli ambienti e storia degli uomini.
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