Newsletter

Vuoi essere aggiornato sui nuovi articoli e sulle nostre attività?

Iscriviti alla nostra Newsletter

Green Economy

barra1

 

franca castellini_2F. Castellini Bendoni: 

Un nuovo alfabeto per la scuola

 

Economia e agricoltura

barra1

 

Segre1

L. Segre:  

Quando mio cugino Primo Levi tornò da Auschwitz

 

Economia dei mercati

barra1

 

F. Silva:  

Emergenza acqua in Lombardia?

 

Sistemi metropolitani

barra1

 

Longhi_3

G. Longhi: 

Una bussola per il Green Deal+Recovery Fund

 

Cina: il sapore dell'anima

Il sapore dell’anima nel continente cinese  – di Fabio Gualandri (*)

Antica Cina

Antica Cina

Se dovessimo unire in un reticolo di collegamenti i contatti degli uomini dagli albori delle civiltà fluviali, quando ebbero inizio i flussi commerciali a lunga distanza, o forse ancora nel primo neolitico, dove la storia si confonde con la paleoantropologia, la grande arteria della civiltà si dipanerebbe lungo i sentieri dell’Eurasia dal mar del Giappone all’Oceano atlantico, seguendo i tortuosi percorsi della via della Seta e delle rotte delle spezie in millenario scambio bidirezionale di saperi, sapori e conoscenze. Per i filosofi, i geografi e i cronachisti occidentali d’ogni epoca l’Oriente è sempre esistito sotto sembianze cangianti e incerte ma spesso ottenebrato da una cortina impenetrabile di fascino esotico, qualificato talora come scrigno di tesori inestimabili, alba dello spirito dell’umanità, fonte di saggezza o rappresentando l’Altro assoluto, quasi i nostri avi rimanessero in fondo sconcertati dall’esistenza di civiltà raffinate e ricche che seguissero linee evolutive totalmente divergenti dalla propria. Se geograficamente è il Giappone la punta levantina dell’ecumene eurasiatico o la fantasia s’immerge nelle profondità spirituali dell’India oppure si spinge fino alla remota incomprensibilità dei regni buddisti in Asia sud-orientale, il tocco della mano coloniale occidentale ha lasciato ovunque dei segni, nella lingua, nella mentalità, nei costumi, abbandonando, enorme e impenetrabile, un’unica, vera, eccezione alla penetrazione europea, il vero Estremo Oriente per cultura materiale e spirituale: la Cina. L’Oriente però è un concetto relativo e non assoluto, culturale e non naturale, ancestrale ma cristallizzato dalle avventure dei secoli chiamati dell’età europea, le cui orme spesso insanguinate hanno alimentato quella bramosa sete di conquista intellettuale classificata sotto la categoria di orientalismo e dalle cui mistificazioni ci hanno messo in guardia intellettuali dalla verga anche eccessivamente ingenerosa come Edward Said. Quando le cannoniere anglosassoni forzarono la cortina di imperscrutabilità cinese, si racconta che i mandarini furono scioccati dall’esistenza di una tecnologia così potentemente superiore. Ma la Cina si apriva al mondo o il mondo si era aperto alla Cina molto prima? E soprattutto la Cina è sempre stata uguale a sé stessa chiusa dietro la Muraglia? La questione non si può circoscrivere a un vezzo accademico, perché dall’histoire événementielle si plana inevitabilmente sulla storia economica e delle idee, nella cultura materiale, e dunque nel cibo e nella nutrizione, oggetto di questo progetto. L’immagine della Cina millenaria come civiltà idraulica del riso è invero corrispondente solo ad alcune fasi della storia e sicuramente non sovrapponibile a tutto il suo territorio. Lo stesso esame dei dati socio-economici è sostanzialmente viziato dalle differenze incommensurabili fra le regioni e da una mappa culturale composita, che incide profondamente sulle abitudini culturali e alimentari, dalle quali ne è d’altronde influenzata intimamente. Si erge come l’umidità dalle risaie una nebbia di equivoci e di rappresentazioni, che spesso porta fuori dal selciato. Anzitutto il solo parlare di Cina in termini monisti è fuorviante ed etnocentrico, si tratta di un’illusione ottica, come quando si osserva un paesaggio multiforme da lontano e pare raccogliersi in un unico punto individuabile. La Cina e la sua cultura sono un continente incastonato fra barriere naturali quasi invalicabili. Un Mediterraneo, una vera terra fra le terre e al centro di esse. Sia bastevole la presa d’atto che il termine stesso con cui designiamo  quel paese nelle lingue europee non esiste ma è un calco, la Cina per i cinesi è solamente Zhong Guo, che viene solitamente reso male dalla letteratura anglofona in ‘Regno di Mezzo’. I due caratteri che la designano e ne disegnano quasi plasticamente la sua auto-percezione significano rispettivamente metà, mezzo, centro e paese, nazione, terra popolata ovvero letteralmente il Paese del Centro o al Centro.

Cos’è la Cina dunque? mappa_cina (3)

Per definire un contenuto non si può che prendere le mosse dalla sua forma nel mondo, che nella geografia politica è inequivocabilmente definita dalla frontiera, che delimita e talora informa il senso dello spirito nazionale e  della statualità stessa. La sua narrazione dell’antichità, sospesa fra la storia e il mito, vuole il nucleo originario della cultura cinese Han sorgere nel cuore della valle alluvionale del Fiume Giallo e il momento della sua unificazione politico-culturale avverarsi sotto lo scettro leggendario dell’illuminato Imperatore Giallo. Occorre precisare che i suoi confini odierni non ricalcano affatto quelli della Cina storica, raccolta invece nelle diciotto provincie centro-meridionali su cui hanno esercitato la sovranità le cosiddette dinastie nazionali dei Qin, degli Han, dei T’ang e dei Ming, ma sono l’eredità dell’espansione dell’ultima dinastia, i mancesi Qing che hanno regnato negli ultimi duecentocinquant’anni di storia dell’Impero celeste. I Qing, dominatori barbari nella storiografia tradizionale, hanno saputo annettere stabilmente all’ecumene sinica territori e popoli che sono stati ciclicamente acerrimi nemici o funzionali alleati delle dinastie Han, ovvero i tibetani, i mancesi e soprattutto i mongoli. Oggi quelle terre sono considerate parte inalienabile della patria cinese e quei popoli nazionalità costituenti della Repubblica Popolare, dal canale di Taiwan alle valli del Kirghizistan. La Cina, che quasi miracolosamente non si è smembrata durante gli anni dell’imperialismo europeo e ha dovuto subire il passaggio dei tifoni dell’invasione giapponese,  della guerra civile rivoluzionaria e della Rivoluzione Culturale, si attribuisce con assertività la continuità statuale della Repubblica Popolare con la Repubblica Nazionalista e l’Impero, giustificando così le rivendicazioni su tutti i lembi di terra che hanno fatto parte della Cina mancese alla sua massima estensione nel XIX secolo. Se un coltissimo intellettuale come Wang Hui si può interrogare ancora se la modernità sia stato il percorso autoctono verso lo stato-nazione oppure se lo stato cinese, il reale protagonista della Storia in questo spicchio di mondo, sia sempre stato un impero oppure se addirittura questa transizione stia invertendo la direzione, allora ci si può legittimamente domandare se le nostre categorie siano sufficienti a capacitarsi uno scenario totalmente altro e a prima vista inafferrabile. Non si può però rinunciare all’intelligenza, nel senso etimologico della lettura oltre l’apparenza irrazionale dei fenomeni, perché afflitta da scoscesi dirupi metodologici. Per studiare la complessità occorre scomporla in unità d’analisi. Solo quando si saranno escluse le alterità per comprenderle si potrà procedere a penetrare verso il cuore della foresta di interrogativi che pone la questio stato-continente. Metodologicamente è innanzitutto necessario isolare ciò che è Cina, intesa come unicum culturale costruito nella continuità della tradizione Han, da ciò che non lo è. Almeno la metà del suo territorio continentale e un decimo della sua popolazione non lo sono. Basti pensare che ufficialmente esistono 55 minoranze etniche riconosciute, anche se i gruppi sono di gran lunga superiori se nella classificazione dello Stato circa 800.000 individui sono riconosciuti come non etnicamente appartenenti agli Han ma di ceppo non precisato. Da una prospettiva nutrizionale, tradizionalmente esisteva uno iato fra le regioni nord-occidentali ed il resto del paese. Sulla steppa della Mongolia interna e nello Xinjiang ricoperto in buona parte dal deserto, la quasi impossibilità di praticare l’agricoltura e le pratiche di pastorizia nomade dei mongoli lamaisti e degli uiguri musulmani, ne determinava la prevalenza nella dieta della carne, quando ovunque dominavano i cereali. I latticini e derivati costituivano l’altro aspetto di una alimentazione legata strettamente all’allevamento, mentre gli Han pare manifestino una avversione congenita verso i derivati dal latte. 

OLYMPUS DIGITAL CAMERALe avversità climatiche e il relativo isolamento a cui le altitudini hanno sottoposto l’altopiano del Tibet per millenni, rendono il panorama dell’alimentazione della provincia buddista scarsamente variegato e caratterizzato dall’onnipresenza nei preparati della farina di miglio, cereale ad alto contenuto dietetico tipico delle aree semidesertiche. Altre granaglie sono coltivate nelle regioni a valle, mentre l’altro pilastro nutrizionale, parimenti alle province settentrionali, sono la carne e i prodotti caseari derivati dello Yak, il bue tibetano, l’unico grande animale sufficientemente resistente per sopravvivere all’ambiente gelido e impervio in cui vive. In realtà, paradossalmente, anche se la negazione del principio di non contraddizione è forse la cifra essenziale di questa civiltà, nonostante queste etnie occupino un’estensione  geografica che spazia dalla costa del Pacifico alle vette del Kashmir, non sono i gruppi numericamente più consistenti. Anzi, non sono nemmeno prevalenti e questo sta creando forzosamente un reciproco scambio o un assorbimento.

RisaieInfatti la densità di popolazione delle province della Mongolia interna, del Tibet e dello Xinjiang è così bassa, se paragonata alla Cina meridionale, da rendere i diciotto milioni di appartenenti al gruppo etnico degli Zhuang, concentrati principalmente nella Regione autonoma del Guanxi al confine con il Vietnam, la minoranza di gran lunga più consistente del paese.  Il livello di specificità  e il grado di individuazione di queste ripartizioni demografiche non restituiscono adeguatamente la variegata differenziazione  intra-gruppo, se gli stessi componenti di queste popolazioni parlano lingue non reciprocamente intellegibili, portandoci a concludere che le statistiche ufficiali devono operare un riduzionismo razionalizzante poiché la realtà presenta una tale diversità interna che di fatto empiricamente è costituita da un pulviscolo di decine di gruppi eterogenei, diversi per idioma, usi e costumi, in territori che sono crogiuoli di diversificazione socio-culturale.

Altre minoranze del sud, che magari hanno combattuto e resistito  agli imperi cinesi per secoli, o gli stessi mancesi, sono notevoli in termini di persone che si riconoscono in esse (anche a causa delle importanti agevolazioni del governo nella politica verso i gruppi etnici) ma le vicende degli ultimi duecento anni in cui hanno condiviso le stesse sorti dell’intero paese li hanno portati ad essere gradualmente assorbiti nell’alveo del culturalismo Han. Ricordo a Pechino l’espressione quasi irridente di una ragazza che mi indicava la sua amica nativa della Manciuria come una diseredata, il cui misero popolo, che una volta imponeva i suoi costumi alle masse cinesi, ora non sa parlare nemmeno la sua lingua natale.

Sottile e quasi impercettibile all’occhio forestiero è la linea che separa etnie e culti locali, Nord di grano e Sud di riso, costa ed entroterra, città e campagna, minoranze che masticano solo la lingua nazionale e maggioranze che si comprendono tra loro solo attraverso la divina immutabilità del segno scritto. Per cogliere l’abisso antropologico fra un qualsiasi villaggio del Gansu e le megalopoli affacciate sul Mar Cinese meridionale, ci si deve calare nell’abisso musicale di inintelligibilità che passa dal cinese mandarino a quattro toni al cantonese che si esprime con dieci tonalità.

Kowloon Tung Choi Street, oggi

Kowloon Tung Choi Street, oggi

La Cina contemporanea è un’alchimia inesatta di modernità e tradizione, così le quattro cucine tradizionali sono i quattro punti cardinali del pluriverso Han. Sicura di rivendicare l’eredità di una storia antichissima, ne ricostruisce e ci presenta una narrazione unitaria che non dà conto delle discontinuità, dei salti, delle mancanze, delle acquisizioni progressive e relativamente recenti. Con l’approccio di chi deve orientarsi in un gioco di specchi dove fatica a risalire al riflesso originario si può ora procedere nel cammino verso la comprensione dell’alterità cinese senza perdersi fra le fragranze e gli sguardi impressionisti nel grande e variopinto mercato della compatta, tradizionale, ancestrale Cina storica. Che probabilmente è un’altra illusione o forse è solo un’altra scatola laccata di rosso.

* * *

(*) Presidente Commissione Decentramento Città Metropolitana – Affari Istituzionali, Casa e Demanio – Consiglio di Zona 8, Comune di Milano

2 commenti per Cina: il sapore dell’anima

  • Franco

    Forse il più illuminante articolo sulla Cina che abbia mai letto. Complimenti!!!!!

  • Aurelio Viglia

    Ottimo articolo pensato e scritto magistralmente da un conoscitore della storia e della realtà cinese. Non sfugge a chi,come me,ha soggiornato periodicamente in Cina a partire dal 1984, che l’estensore dell’articolo non parla per sentito dire ma è molto al corrente dei fatti passati e presenti.

Commenta

  

  

  

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.