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Denutriti e Obesi: le dinamiche e le patologie da sviluppo - 2/5

Denutriti e Obesi: le dinamiche e le patologie da sviluppo – 2/5 – di Carlo Alberto Rinolfi (Conferenza sulla Nutrizione verso Expo 2015) 

Seconda di cinque parti

obesitàSe vogliamo capire gli handicap della nutrizione dobbiamo esaminare come si configurano in ciascun mondo della nutrizione e tenere presente le loro dinamiche.

Scopriamo così che i denutriti e i malnutriti non si trovano più soltanto nei paesi in via di sviluppo o non sviluppati, ma anche presso  i paesi occidentali in declino alle prese con le nuove povertà, e che gli obesi non sono più presenti solo  in quelli più sviluppati ma anche in quelli che, pur essendo ancora  ai margini dello sviluppo economico, hanno  adottato stili alimentari inappropriati.

Se ci sono paesi non ancora economicamente sviluppati come Haiti e la Mongolia  che registrano  dinamiche  crescenti di obesi,  come evidenzia la tavola di Mondohonline  che riporta le variazioni tra il 2002 e il 2010, siamo costretti a chiederci come è possibile che la diffusione dell’obesità  venga generata in ambiti così lontani da quelli nord americani o europei .

Talvolta vere e proprie epidemie  di obesità si ottengono involontariamente con  le derrate alimentari che si inviano per gli aiuti  alle popolazioni affamate. Mentre si regalano alimenti per risolvere l’handicap della denutrizione,  si generano paradossalmente anche gli handicap dell’obesità.

In altri casi si ottiene lo stesso risultato nelle fasi di avvio dello sviluppo economico (in particolare nelle periferie delle metropoli  e urbano)  con l’adozione di stili di vita e di certe  diete alimentari occidentali. Il meccanismo  fisiologico è legato alle differenze degli assetti genetici delle popolazioni. Una popolazione evolve il suo assetto genetico in funzione dell’agricoltura che ha sviluppato e di conseguenza dei prodotti alimentari di cui si è nutrita  sin dalle sue origini. Il rapporto che ha avuto per millenni con la terra  non ha soltanto determinato la sua cultura culinaria ma ha anche modificato i suoi processi metabolici e fisiologici.

dinamica obesitàAccade quindi che quando la popolazione di un dato territorio consuma alimenti ai quali non è abituata (non importa se sono geneticamente modificati) si può creare un danno alla sua salute. Il dramma è che il danno non è solo fisiologico, ma tende a distruggere le antiche radici culturali di quella popolazione con conseguenze devastanti per intere comunità, che sono letteralmente travolte dagli effetti indesiderati del loro cambiamento.

Cambiare le tradizioni del cibarsi significa incidere nel profondo la radice dell’identità fisiologica individuale e comunitaria. Da sempre l’identità di ogni popolo affonda nel rapporto con la natura, e l’agricoltura con il cibo relativo rappresenta questo rapporto.

La metafora biblica della mela ci ricorda l’importanza del cibo. Da quel semplice frutto nasce un processo formidabile grazie al quale nell’essere umano si trasforma la materia inanimata vegetale per diventare vita e pensiero consapevole. Infatti in base a come si produce quella mela, di come si genera quell’alimento, di come si crea “il pane quotidiano”,  l’uomo cambia se stesso fisicamente e socialmente creando l’identità della propria etnia. Non ci si deve meravigliare quindi se con la semplice fornitura di alimenti con gli aerei dell’Occidente si può spingere una popolazione ad abbandonare tradizioni preesistenti (compresa l’abitudine a coltivare la terra) e ingrossare l’esercito di mendicanti che bussano ai margini delle metropoli.

Essendo impossibile separare la mente dal corpo, l’identità umana non è solo culturale ma è sempre anche fisiologica e stati di anomie sociali, o viceversa di adesione incontrollata a nuovi stili alimentari, generano  patologie sociali  definibili “da sviluppo” , che riducono la  resilienza fisiologica di intere popolazioni.

Nei PVS si manifestano anche i fenomeni legati all’urbanizzazione, già comuni nelle economie occidentali. Il 70% circa degli abitanti del pianeta vivrà presto all’interno di quelli che oggi definiamo “tappeti urbani”. Spazi enormi uniti da infrastrutture in cui è assente ogni separazione netta tra città e campagna. In questi luoghi non si muore più di fame, ma di cibo ci si ammala.

Le moltitudini che migrano nelle aree urbanizzate abbandonando la loro cultura e agricoltura tradizionale per occupare i confini delle metropoli, le periferie, le  bidonville, e le favelas di Rio o di San Paolo, di Nairobi, di Mexico City o di Manila entrano in  contatto con un’alimentazione molto diversa da quella rurale a cui erano abituate da generazioni. Incontrano un cibo lontano dalle loro radici culturali, un’alimentazione che è generata altrove secondo gli standard del trash food o anche del generico food occidentale, bibite e alimenti con molto effetto gustativo ma poco effetto nutriente.

Dato che tutto il mondo sta andando in questa direzione, non ci troviamo più soltanto di fronte al cambiamento trofico della catena alimentare urbana che privilegia le carni rosse sui vegetali, ma agli effetti fisiologici e culturali del cambiamento generalizzato e alla contaminazione delle diete, che stanno diventando quasi ovunque a base animale e ciò avviene secondo forme poco coerenti con l’assetto genetico originario.

Sappiamo che l’incremento di questo tipo di domanda alimentare urbana spinge a ricercare l’aumento di produttività delle colture necessarie ad alimentare gli animali da carne, con conseguente ricorso a fertilizzanti, OGM e tecniche di allevamento, di coltivazione particolarmente intense e ad alto impiego di acqua. 

Gli stress però non si limitano all’ambiente ma investono anche le popolazioni. In ogni metropoli del mondo si ritrovano ormai diverse etnie con differenti soglie di sopportazione nei confronti di certi alimenti.

Il rischio di ulteriori patologie di origine alimentare è ormai una realtà anche in una metropoli europea di medie dimensioni come Milano. Lo testimonia il fatto che le Università di Milano si stanno occupando di un problema che riguarda la comunità cinese, e in particolare le puerpere, che manifestano patologie da cambio di alimentazione.

La nostra dieta mediterranea evidentemente non è indicata a tutti; infatti i cinesi, che a differenza degli europei da migliaia di anni non hanno allevato bovini, non hanno la stessa capacità di metabolizzare tutti i latticini; per loro alla dieta mediterranea è preferibile una dieta a base di riso, pesce e carni bianche. A loro il gelato può far male.

Lo stesso vale anche per chi proviene dall’America Latina ed è abituato a legumi, vegetali e verdure cotte. Noi stessi diventeremmo obesi o ci ammaleremmo in poco tempo se seguissimo una dieta particolarmente diversa dalla nostra, proveniente dal resto del mondo o anche dal vicino Nord Europa. Analogamente, se gli abitanti del Nord Europa mangiassero in continuazione quello che si mangia abitualmente nel Sud Europa rischierebbero nuove patologie alimentari.

Sappiamo che il mondo tende a svilupparsi nelle città multietniche e  che quindi le contaminazioni alimentari aumenteranno. Questa è una fonte strutturale di cambiamento nutrizionale e nel contempo di incremento del fabbisogno alimentare.

Da un lato dobbiamo produrre di più per tutti salvaguardando le risorse e dall’altro dobbiamo continuare a contaminarci sul piano alimentare tenendo però conto delle conseguenze.

Se non lo si farà potranno esplodere sempre di più delle vere e proprie epidemie a carattere planetario, quella dell’obesità è il caso più classico, ma ce ne sono anche di altra natura talvolta più silenti, come quelle più legate agli effetti dell’urbanizzazione sull’aria che respiriamo e sull’acqua che beviamo o alle pratiche di confezionamento e conservazione dei cibi con particolari materiali plastici. 

Intervenire sia in termini preventivi che curativi è ormai una necessità che, come al solito,  ci fornisce l’opportunità di inventare nuovi servizi, metodi, sistemi, prodotti e scambi culturali che possono recuperare il valore dell’esperienza di civiltà che fino a poco tempo fa consideravamo lontane.

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