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Psicopatologia dello sport estremo: da Balint padre della psicologia medica di supporto, alla concezione del Dsm IV sulla personalità narcisistica conclamata nello sportivo di limite  –  Editoriale di Elisa Deponte (*) e Giovanni Lodetti  (**)

 Che relazione c’è tra gli esseri umani e lo sport estremo, che caratteristiche di funzionamento psichico, al limite tra la normalità e la patologia, sostengono delle condotte “al limite” a rischio? La diffusione della passione del rischio nella popolazione indica un movimento in senso modificativo della società contemporanea. In uno scenario ambivalente sembra
emergere da una parte l’esigenza di esprimere, o trovare, il proprio sé, di dare senso alla propria vita, di riscoprire le emozioni forti, ma dall’altra, all’opposto, di operare una anestesia emotiva di fronte alle richieste della realtà e di una società sempre più performante e lontana dalla dimensione umana.

L’epoca dell’alpinismo ha lasciato spazio, anche, alla nascita di discipline dove l’attenzione si è spostata dall’esterno all’interno, dall’esplorazione del territorio all’esplorazione introspettiva del sé. Il bungee–jumping, il balconing, il parkour, il basejumping, il freeride estremo, la ricerca della vertigine, delle situazioni brivido, parlano di una sperimentazione di sensazioni ed emozioni forti, inusuali e la prova del corpo in situazioni al limite. Corpo che come cornice psichica del sé è coinvolto in questa che sembra la ricerca di definizione dell’identità.

In questi sport l’esperienza del limite è fondamentale, parte dalla comprensione dell’assoluta secondarietà di importanza di raggiungere una cima, ma ciò che è in figura è l’esecuzione del gesto tecnico, elegante, eccezionale, quasi impossibile, che va oltre le capacità dell’uomo. Ma raggiungere il limite determina “una risposta del corpo, che attiva risorse inattese… una sorta di stato di grazia in cui il corpo, come se fosse illuminato, trova da solo le soluzioni migliori”. Cesare L. Musatti scrisse che “L’Alpinismo è uno sport che presuppone la costante incombenza del rischio e della morte” (Cfr. Pastonesi, Teruzzi).                     

 “Abbiamo bisogno di conquistare, fare, raggiungere la vetta, abbiamo bisogno di conoscere la morte per essere convinti di poterla vincere”, commenta George Mallory.

“Il nostro inconscio non concepisce la nostra morte, si comporta come se fosse immortale”, scrive Musatti. Ciò che chiamiamo inconscio non conosce in genere alcunché di negativo, alcuna negazione e quindi neppure la propria morte. La interpretazione razionale dell’eroismo sostiene che vi siano determinati beni astratti e universali più preziosi della vita. Va considerato che più spesso l’eroismo spontaneo e istintivo, che prescinde da tale motivazione, sfida i pericoli sostenuto dall’assicurazione “che nulla ti può accadere” (Cfr. Hans, lo scalpellino di Anzengruber). La fantasia di coloro che scelgono di sfidare le situazioni-brivido è quella di non avere bisogno di nessun oggetto, sostenuta dalla convinzione di possedere abilità sufficienti, poiché tutto finirà bene. In genere, in queste persone il rapporto con gli oggetti è secondario rispetto al rapporto con gli spazi-amici. Max Calderan nell’intervista a cura di Bruni spiega i suoi vissuti nelle situazioni estreme del deserto: “La realtà è che in queste imprese entro in casa mia! Finalmente sono a casa. Una casa che non ha arredamento, che non ha forme di pensiero di qualcun altro che sono rimaste appese, che non ha interferenze perché nessun altro ci è passato prima di me. Torno alla mia origine, che è poi l’origine di ciascuno di noi. Un’origine dove non c’erano troppe frequenze mescolate, ed erano frutto di un qualcosa di spontaneo che usciva dall’uomo. Adesso tutte le interferenze sono peggiori perché sono frutto di condizionamenti”.

Nella fantasia, le personalità con un iperinvestimento sul Sé, regrediscono a una concezione del mondo simile all’esistenza intrauterina, alla sicurezza dell’holding materno, ma per poterla accettare devono accettare l’esistenza autonoma e separata degli oggetti e accettare e affinare le proprie abilità. La sfida presuppone infatti comportamenti che richiedono abilità, funzioni di un Io integrato, come la capacità di affrontare le situazioni reali esterne, di accettare la depressione relativa alla consapevolezza che gli oggetti sono separati e indipendenti da sé.  Di fatto, queste persone solo in apparenza sono indipendenti, autosufficienti. Esprimono in pratica la necessità di avere qualcosa a cui aggrapparsi, oggetti che simbolizzano la madre affettuosa come dispensatrice di sicurezza, nonché il pene eretto come simbolo del potere. 

“Quindi, la realtà è che non ricerco nulla, ma entro in alcune situazioni, chiamiamoli ‘gate’, i cancelli, dove sento che si attiva qualcosa che mi permette di accedere a dei livelli di conoscenza per i quali ho sempre di più conferme. Poi che siano utili a qualcuno non lo so, però è chiaro che succede questo, ed è una cosa normale” (Max Calderan).

Balint concepisce, con Otto Rank, la nascita come il primo evento traumatico per ogni essere umano. Ogni sensazione angosciosa è, sostanzialmente, un ritorno all’angoscia della nascita. Così come ogni piacere deriva in ultima analisi dalla tendenza a riprodurre il piacere originario: il piacere di stare nel ventre materno. Lo sviluppo psicologico inizia da una relazione ideale di amore del bambino con il suo oggetto primario, che si esprimerà nel desiderio dell’individuo di essere amato incondizionatamente.  In questa fase la madre è per il bambino un ambiente indifferenziato, senza struttura né oggetti, una “madre ambiente”.

Se la nascita fisica rappresenta per il bambino la prima separazione e dunque il primo trauma, la scoperta che gli oggetti primari esistono indipendentemente da lui costituisce il secondo trauma. Gli esiti di questa fase possono essere di investimento spropositato sugli oggetti, o di iperinvestimento sul proprio Sé. Lo scopo della sfida, per i tipi che iperinvestono il proprio Sé, è dunque quello di ristabilire l’armoniosa mescolanza con l’ambiente. 

Durante lo sviluppo, queste persone affinano le abilità che permetteranno loro di ricreare in parte l’armonia tra sé e il mondo; abilità che permetteranno loro di divertirsi e di essere fantasticati come risoluti e impavidi, quasi eroi, da conoscenti o spettatori. Con l’esperienza della sfida possono abreagire una parte del trauma originario in condizioni sopportabili e di sicurezza. Il problema è che l’acquisizione di così raffinate abilità di affrontare e evitare i pericoli comporta la perdita della capacità di creare e mantenere legami significativi con l’altro. Max Calderan, sportivo nell’arrampicata e nello scialpinismo, oggi esploratore desertico estremo, è l’unico uomo al mondo in grado di sopravvivere nel deserto in perfetta solitudine, in autosufficienza alimentare, senza assistenza medica, dormendo solo tramite micro-cicli di sonno e a temperature estreme. In una intervista (Cfr. Bruno, Capodieci)  esprime con fredda e serena cognizione il concetto di sport estremo per sé, il proprio Sé. “Estremo è un concetto assoluto, Sport molto relativo. Estremo è quel limite varcato il quale esiste il punto del non ritorno. Non UN punto, IL punto. E il punto di non ritorno è l’unica caratteristica distintiva che può essere ricondotta all’estremo, all’estremo assoluto”.

“Prendiamo ad esempio un alpinista che arrampica su una parete di massima difficoltà mai raggiunta prima da nessun uomo al mondo, diciamo, per semplificare, difficoltà 10. Affrontare e completare tale difficoltà in parete con una corda di sicurezza legata alla imbragatura implica che parliamo di raggiungere una difficoltà tecnica estrema, realizzata in un contesto di estremo relativo. L’estremo assoluto è rappresentato, invece, da quell’alpinista unico al mondo che senza corda arriva a fare una parete di difficoltà magari inferiore a 10, ma si arrampica senza corda”. Il punto del non ritorno, per Calderan, è la morte,  la conditio sine qua non perché si definisca in termini concreti l’estremo assoluto. E’ la ricerca di vincita sulla morte a divenire la spinta per le sue imprese, un serbatoio pulsionale per l’Io, che però dobbiamo interrogarci se non sottenda una ambivalenza segreta tra l’andare incontro alla morte e l’evitamento della stessa. Più volte Reinhold Messner, che nel sul libro ‘Il limite della vita’ racconta incredibili episodi di sopravvivenza in montagna, esamina le reazioni dei sopravvissuti e scrive: “L’arte del grande alpinista sta nell’andare dove la morte è probabile,  e non morire”.

La categoria del rischio, fisiologico o meno, è una categoria tipica dell’universo umano, giovanile, scrive Vigna, da tutti noi perciò in una qualche maniera sperimentata. La psicoanalisi infantile ha svelato come l’atto di crescere, di separarsi dal mondo e dal proprio sé infantili, sia una atto aggressivo. La conquista di una nuova dimensione relazionale separata, l’acquisizione di un’autonomia e l’avvio del processo di identificazione, richiedono la messa in campo di una grande energia psichica che prende le forme della rabbia, della svalutazione, della sfida e dell’aggressività. Il rischio come ricerca di emozioni intense, quali forti esperienze integrabili nell’unità del sé, può anche essere inscrivibile in un pattern di comportamenti sani, con un rischio valutato e limitato, in funzione del raggiungimento di un goal sportivo specifico. 

“Il pericolo la paura, l’abisso, la vastità e l’immensità, il brivido dell’annientamento, il senso di fragilità dell’uomo, la sua solitudine di fronte a una natura incombente e minacciosa: di tutto questo è fatto il sublime, che è l’emozione più acuta e profonda che il soggetto osa sperimentare di fronte alla minaccia dell’annichilimento. In montagna si va per vivere queste sensazioni fatte di grandiosità e di rischio”. “E l’esperienza del conflitto, come diceva Kant, è costitutiva per l’estetica del sublime: il punto in cui entrano in collisione la minaccia della catastrofe e la gioia per il suo superamento. La sfida lanciata alla natura più ostile corrisponde a un esorcismo della morte, piuttosto che a una pulsione autodistruttiva, in quanto serve a consolidare il senso dell’Io di fronte alla minaccia dell’inevitabile scomparsa”, scrive Brevini.

D’altra parte la distinzione tra normalità e trasgressione, patologia, disagio è molto sfumata. Dovremmo perciò saper distinguere tra condotte a rischio inconsapevoli  (behaviour risk) e ricerca del rischio attiva (risk-taking), che spesso si accompagna a una psicopatologia. I Disturbi di Personalità rappresentano il gruppo di disturbi psichiatrici maggiormente in aumento nella nostra epoca; tra questi il Disturbo Borderline ed il Disturbo Narcisistico di Personalità appaiono indubbiamente tra le condizioni psicopatologiche più complesse e di difficile trattamento. L’emergenza del fenomeno è complicata dalla frequente comorbidità di tali patologie con disturbi da discontrollo degli impulsi, da abuso di sostanze e da dipendenze patologiche.  Sia il soggetto narcisista che il soggetto borderline soffrono per via del loro rapporto con il limite. A volte del tutto assente, a volte presente solo parzialmente, a volte troppo rigido, il limite viene ricercato e negato allo stesso tempo, nelle relazioni con l’altro e nelle condotte al limite (od oltre il limite) della “normalità”, come nel caso degli sport estremi, degli abnormi comportamenti alimentari o di pratiche sessuali estreme, degli abusi di sostanze, della promiscuità sessuale e dei gesti autolesivi. In tutti questi ambiti il corpo è messo a durissima prova.

La pratica dello sport estremo riguarda per lo più alcuni tipi di personalità. E’ possibile individuare 3 tipi di categorie.  Da una parte abbiamo “Il professionista sano dello sport estremo” che riesce a programmare la propria impresa riducendo al minimo i fattori di rischio e avvalendosi di un team preparato tanto dal punto di vista tecnico, quanto da quello psicologico e soprattutto nella dinamica di piccolo gruppo. La buona programmazione dell’impresa consiste nel calcolo del rischio che deve essere il più possibile “oggettivo” e che diventa la componente fondamentale per la sua riuscita. 

Una seconda categoria è rappresentata dai “Sensation Seeker” (Cloninger, 1987) che, pur di andare a caccia di emozioni, sono pronti a compiere le imprese più spericolate. L’individuo, da studi di marca biologico-fisiologica,  ha delle soglie di attivazione che possono essere considerate per lui ottimali e che possono subire varie oscillazioni lungo l’arco della vita. Quando si verificano scostamenti eccessivi dal livello ottimale di arousal, in un senso o nell’altro, il soggetto tende ad attivarsi per riportare le stimolazioni sensoriali entro i giusti confini.

Infine la terza categoria è rappresentata da “colui che si ciba della propria immagine”, colui che accetterà la sfida pur vedendo aumentare il numero di rischi. Rientra in questo gruppo il “narcisista” che cerca di colmare il vuoto interiore con la ricerca di sensazioni estreme, al fine di migliorare non tanto se stesso, quanto l’immagine che ha di sé. Con il tempo vede ampliarsi la possibilità d’errore ma questo non lo allontanerà dalla pratica dello sport estremo.

Freud in “Introduzione al narcisismo” postula come esista un narcisismo primario, che vede un investimento libidico originario dell’Io, di cui una parte è ceduta in seguito agli oggetti, ma che in sostanza persiste e che ha con gli investimenti una continua relazione. Per secondario, intendiamo invece, quel narcisismo sorto da riappropriazione di investimenti oggettuali. La libido sottratta al mondo esterno è così diretta sull’Io, e in taluni stati patologici sostiene il delirio di grandezza. Si deve concepire il narcisismo sano e il narcisismo patologico come dimensioni che si dispongono lungo un continuum che va dalle forme più utili e necessarie allo sviluppo e al benessere dell’individuo (primario)  alle forme associate a manifestazioni più o meno stabilmente strutturate di patologia (secondario). Il narcisismo è dunque un regolatore dell’autostima: quanto più questa viene minacciata o danneggiata tanto più intensamente si attivano le risorse e le difese finalizzate a mantenere il sé coeso e a dare alla rappresentazione di sé una colorazione affettiva positiva (Cfr. Ponsi, 2003). La capacità di sollevare l’autostima dopo una caduta è un’importante risorsa per la salute psicofisica. 

L’analisi delle condotte manifestate dai protagonisti dello sport estremo ci riporta a due gruppi di personalità narcisistiche (benché fenomenologicamente, spesso, prevalgano le forme miste): il primo caratterizzato da grandiosità ed esibizionismo, il secondo da vulnerabilità e ipersensibilità. Gli appartenenti al primo gruppo sono chiamati “overt” da Akhtar (1982, 1989) e “inconsapevole” da Gabbard (1994). Il narcisista è molto soddisfatto di sé, è arrogante, sprezzante, vanitoso, egocentrico e ha un intenso bisogno di protagonismo. E’ un manipolatore, un intimidatore, indifferente allo stato d’animo degli altri, ha la “pelle spessa” (Rosenfeld, 1987) e tende a costruire scudi tra sé e gli altri che lo rendono impermeabile, insensibile. E’ competitivo ed ha la finalità di ottenere riconoscimenti immediati e gratificazioni. Si sente speciale, dà per scontato che gli spettino particolari privilegi e prova un profondo, spesso incontrollabile, sentimento di rabbia quando non gli sono riconosciuti dei trattamenti speciali. Il bisogno di superiorità, in realtà, cerca di compensare un forte sentimento di inferiorità; ha interesse per l’oggetto affinché funzioni da ammiratore per il suo Io grandioso. 

Il secondo tipo di narcisismo, chiamato anche “covert“, che Rosenfeld avrebbe denominato “a pelle sottile”,  riguarda il soggetto inibito e schivo, che cerca di non essere mai al centro dell’attenzione e ha difficoltà nei rapporti con gli altri. E’ molto sensibile e gli atteggiamenti del prossimo lo condizionano eccessivamente, le critiche lo feriscono profondamente. Ha un complesso di inferiorità manifesto che gli fa considerare l’altro in termini di idealizzazione e sé stesso inadeguato. Sente frequentemente vergogna e umiliazione, impotenza e sconforto. Queste ultime sensazioni evocano una situazione depressiva. Apparentemente questo narcisista appare meno grave del primo, anche se difficilmente riuscirà ad avere successo nella vita proprio per la sua forte inclinazione ad autosvalutarsi.  Il narcisista è in continua lotta per difendere il proprio equilibrio, dimostra mancanza di interesse verso gli altri, ma è altrettanto indifferente verso i suoi veri bisogni e sovente il suo comportamento risulta autodistruttivo. Dietro aspetti depressivi, sentimenti d’impotenza e inibizione, c’è spesso una fantasia inconscia di grandezza, quella che Freud indica come risiedere nell’Ideale dell’Io. In modo reciproco, dietro la grandiosità e la forte sicurezza di sé, si nasconde un sentimento di fragilità, di impotenza e di nullità, che può venire esorcizzato solo con la sicurezza di tenere gli altri sotto il proprio controllo.

Pip“n Ferreras, il famoso apneista, ha continuato la pratica dello sport dell’apnea andando oltre il proprio limite e continuando la sfida del record anche dopo la morte d’Audrey Mestre, moglie tragicamente scomparsa nel 2002 durante un tentativo di record No Limits in apnea assetto variabile assoluto nelle acque della Repubblica Domenicana. Egli ha coinvolto Audrey e altre persone nella propria “corsa” alla gratificazione arrivando a creare con la moglie una sorta di coppia “narcisistica”. Le patologie individuali possono esacerbarsi all’interno di fatali meccanismi di collusione di coppia. Ci sono, infatti, coppie formate da un narcisista overt-perpetratore e da una narcisista simbiotica covert-vittima (Gear, Liendo & Rathge 2005) ed  entrambi hanno bisogno dell’altro ai fini di regolare la propria autostima o, in altri termini, di “trionfare” per denegare l’impotenza infantile (Filippini, 2005). Il funzionamento patologico ha portato Pip“n a dover sostenere un sé grandioso e, diventando il “perpetratore”, ha esercitato una persecuzione psicologica, consistente in tentativi di controllo dell’oggetto compiuti attraverso la denigrazione, la svalutazione, il rimprovero e il sarcasmo, nei confronti della sua compagna di vita e di immersioni, che è diventata così la “vittima”.

“Le perversioni trattano il pericolo d’impulsi distruttivi diretti sia contro l’oggetto che contro sé. Esse provvedono un misto di scarica sessuale e di piacere mentre allo stesso tempo evitano sentimenti di ansietà e colpa che altrimenti potrebbero nascere”, Gillepsie 1964.

Sembra che il funzionamento di queste personalità esprima l’impossibilità di fare un uso dell’oggetto oggettivamente percepito, uso di cui Winnicott fa una parte centrale della sua teoria e comprende, senonché necessita, che l’oggetto soggettivo debba andare distrutto dal soggetto che può cominciare a percepirlo oggettivamente.  La personalità di Audrey, specularmente, sembra dover essere approfondita per capire quali suoi aspetti, altrettanto patologici, quali forse il bisogno di dipendenza affettiva, la necessità di sentirsi indispensabile, le abbia impedito di sottrarsi alla seduzione e alla fascinazione di bisogni onnipotenti diventandone la “vittima” anziché restare prossima a se stessa con uno sguardo al proprio mondo interno oltre che all’affascinante mondo esterno degli abissi sottomarini. La storia di vita di Pip“n, fruibile attraverso la sua autobiografia e attraverso le numerose testimonianze, è un importante spunto per una riflessione clinica in termini psicodinamici delle perversioni narcisistiche e dell’amore perverso. Riprendendo i criteri generali del DSM IV TR (2000) possiamo sottolineare come la caratteristica essenziale del Disturbo Narcisistico di Personalità sia un quadro caratterizzato da tendenza alla superiorità, necessità di ammirazione e mancanza di sensibilità ed empatia per l’altro. Gli individui con disturbo narcisistico appaiono spesso presuntuosi, credono di essere speciali, superiori, di dover essere soddisfatti in ogni loro richiesta e di avere diritto ad un trattamento speciale. Per queste qualità le relazioni interpersonali sono tipicamente compromesse.

Gli individui con patologia narcisistica, infine, provano spesso invidia o ritengono che gli altri siano invidiosi di loro. Tendono a vedere il prossimo in chiave competitiva e a lottare per stabilire e mantenere una posizione di supremazia. Le relazioni sono spesso fallimentari,  scelgono generalmente partner con un funzionamento dipendente, deboli e sottomessi, disposti ad ammirarli e a farli sentire importanti. Dopo un po’ di tempo, però, si annoiano, si sentono insoddisfatti e vanno alla ricerca di nuovi flirt, volti a stimolarli nuovamente, oppure tentano di trasformare il/la partner, manipolandolo a loro piacimento. In ogni caso i narcisisti, anche quando hanno la sensazione di avere tutto ciò che desiderano (successo, amore, soldi, ecc.) si sentono costantemente insoddisfatti e attraversano fasi depressive a cui non sanno dare una spiegazione. 

Nell’epoca attuale il rischio riveste una molteplicità di forme e significati con un denominatore comune: la ricerca di limiti che abbiano un valore di garanzia per l’esistenza. “Andare all’estremo di se stessi”, “oltrepassare i propri limiti”, sono tutti comportamenti di sfida necessari per affrontare se stessi sotto gli occhi degli altri. Attraverso la ricerca dei limiti, l’individuo indaga le proprie caratteristiche, impara a riconoscersi e a dare valore alla propria esistenza. Affrontare un rischio diventa la sfida suprema: incantare simbolicamente la morte. Sfidarla come nelle parole di Musatti relative all’alpinismo, tracciando i limiti della sua potenza, rafforza il senso di identità dello sfidante. Dal successo dell’impresa nasce l’entusiasmo, il vissuto di percepire significati capaci di restituire all’esistenza, almeno per qualche tempo, delle basi più favorevoli.  Sfidare la paura, sentirsi totalmente liberi, potenti e invincibili, assecondare il bisogno irrefrenabile di spingersi oltre, sollecita, chi pratica lo sport estremo, ad insistere cercando di raggiungere mete sempre più ambiziose. Per i dipendenti dal rischio, il tempo del pericolo è un tempo sacro, perché procura l’esaltazione, l’ebbrezza interiore di osare un’impresa in cui la vita è appesa a un filo. Proprio perché c’è la possibilità di perdere tutto, c’è anche quella di vincere tutto. In una società in cui tutto diventa indifferente, occorre misurare il valore dell’esistenza rischiando di perderla. Paradossalmente, sfiorare deliberatamente la morte conferisce un prezzo alla vita, quando manca un sistema di significati e di valori collettivamente condiviso.

Come scrive Lasch è importante anche operare connessioni tra la tipica personalità narcisistica e certe costanti caratteristiche della cultura contemporanea, quali il terrore della vecchiaia e della morte, l’alterazione del senso del tempo, il fascino della celebrità, il declino dello spirito ludico, il deterioramento dei rapporti tra uomo e donna, il depauperamento dei sistemi valoriali.  “Il narcisismo sembra rappresentare realisticamente il modo migliore di tenere testa alle tensioni e alle ansie della vita moderna.” Se c’è uno scopo nell’esistenza di un narcisista, questo è lo sviluppo edonistico della propria persona, e attraverso il successo il riconoscimento del proprio valore intrinseco. Deve fare, però, i conti con una grande fragilità intrinseca rappresentata dal riconoscimento da parte degli altri, e in particolare del suo mondo relazionale e affettivo, del suo valore e del suo successo. “E’ bello potersi vedere specchiati nella bianca pace che avevamo creato anche nei più profondi recessi del nostro Io”, Freerider.

(*) Elisa Deponte, psicologa clinica, psicoterapeuta, Aipps

(**) Giovanni Lodetti, Presidente Aipps (Associazione internazionale di psicologia e psicanalisi dello Sport)

Pubblicato  da RE-evoluo  –  Ri-evoluzione e psicologia dello sport , Rivista scientifica di AIPPS-SIPCS  (Associazione Internazionale Psicologia e Psicoanalisi dello Sport,  Societa’ Italiana Psicologi Clinici dello Sport) – Numero speciale,  15 febbraio 2017

Bibliografia:

  • Albus, M.; Messner, R., Non troverai i confini dell’anima, Mondadori, Milano, 1996
  • Akhtar, S. & Thompson J. A. (1982), Overview: Narcisistic personality disorder. American Journal of Psychiatry, 139 (1), 12-20.
  • Amadio, P., Capodieci, S., “Sport estremo e patologia narcisistica”, Scuola superiore Internazionale di Scienze della Formazione, Venezia Mestre.
  • Bergeret, J. , La personalità normale e patologica , Raffaello Cortina, Milano, 2002
  • Bertolini, Casnati, Zucconi, Un ricordo, Asnea, 2013.
  • Bruno, Capodieci, “A proposito di sport estremi: intervista a Max Calderan”, Venezia Mestre.
  • Ferreras, P. Nel Blu Profondo. Una storia di amore e ossessione, Milano, Mondatori, 2005.
  • Rank, O., Il trauma della nascita, Varese, Sugarco Editore, 1988.
  • Freud, S., Introduzione al narcisismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.
  • Lodetti, G., “Psicoanalisi dello sport estremo”, Università Studi di Urbino. 
  • Meneguz, G., “Comprendere la dimensione di rischio”, in Attualità in psicologia, 2001.
  • Meneguz, G., “Cenni sul contributo di Michael Balint”, in Attualità in Psicologia, 2001.
  • Musatti, C., Freud, con antologia freudiana, Torino, Universale Bollati Boringhieri, 2000.
  • Pastonesi, Teruzzi, “Palla lunga e pedalare”, 1997, Delai Editore.                     
  • Ponsi, M., “Narcisismo e perversione relazionale”, in I profili clinici del narcisismo, 2003.
  • Vigna, P., “La ricerca del rischio nella cultura del narcisismo”, in No limits, 2010.
  • Winnicott, D., W., La teoria del rapporto infante-genitore, in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma 1970.

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